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Passi gli anni ad ascoltare decine di magnifici dischi di musica elettronica, spingendo sempre più lontano il pregiudizio che la macchina è sinonimo di freddezza. Ti torna in mente Björk, quando dice che piegare un oggetto freddo alla tua volontà e dargli umanità è la parte più bella della creazione. Oppure ricordi i molti dischi riusciti composti solo attraverso lo scambio di mp3, come il debutto degli scomparsi My Violent Ego o le ballate di Isobel Campbell e Mark Lanegan. Sei preparato, dunque, ad ascoltare un disco creato attraverso lo scambio incessante di file via Internet, per di più creati unicamente da laptop.
Eppure, all’ascolto, qualcosa non va. Per niente. Perché va bene l’elettronica da ascolto, va bene l’ambient music, ma Brian Eno riusciva a mettere ben altra anima in cose molto simili. E “Plans drawn in pencil” suona esile, sempre uguale, pallida fotocopia di un clichè ambientale ascoltato mille volte, dove il rallentamento è sinonimo di noia (il lentissimo pianoforte di “Roadrunner”). La cosa più fastidiosa del disco è proprio la sua perferzione formale: non c’è una nota fuori posto, tutto è esattamente dove te lo aspetteresti. Un album asettico. Ospedaliero.
E si può fare attenzione quanto si vuole a cogliere le sfumature, ma quando anche il semplice rumore di un libro che si accomoda meglio sullo scaffale basta a distrarti dai microbeats che escono dalle casse, beh… viene da chiedersi per quale motivo si debba continuare ad ascoltare. I piani disegnati a pastello dagli Isan sono decisamente troppo evanescenti: se lo scopo del duo era quello di creare un disco trasparente, allora gli Isan sono riusciti nell’impresa; ma da Antony Ryan e Robin Saville è lecito pretendere ben altro.