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Ci sono momenti in cui proprio non hai voglia di uscire di casa. Stai a fissare le ragnatele sul muro, i poster che si stanno scollando dalle pareti, incapace di reagire. Sono quei momenti in cui gli amici cercano di trascinarti fuori casa, e magari ci riescono pure; poi però torni nella tua stanza e ti senti esattamente come prima. È a quel punto che vedi la tua chitarra in un angolo, e inizi a toccarla: le affidi un po’ della tua tristezza, o della tua timidezza cronica, cominciando a sforarla come il più intimo degli Elliott Smith.
Ma ancora non ci siamo, non riesce ad esprimere bene quel vuoto senza nome che hai dentro, e allora costruisci sopra quelle note delicate rumori, cumuli inestricabili di feedback. Così, senza il minimo supporto ritmico, con la tua voce che riesce a malapena a farsi udibile.
È questa l’atmosfera che pervade “Clinical shyness”, il debutto di My Dear Killer, one-man band sospeso tra Varese e Londra: un album da cameretta in cui niente e nessuno, però, ti invita ad accomodarti. Nulla si amalgama, in queste sette canzoni, ed è una cosa voluta: gli arpeggi malinconici sono soffocati dal rumore, il feedback rimbalza violento contro le pareti della stanza, come un’emozione che preme per uscire e non vi riesce.
Si sono mossi in tanti, tre etichette del sottobosco più indie assieme alla neonata Boring Machines, per portare lo spleen di My Dear Killer all’esterno: tra folk oppresso dal noise e oscurità sadcore, “Clinical shyness” non è certo un disco a cui tornare spesso, perché sa metterti a disagio in una maniera quasi fisica. Ma, anche se con pochi mezzi e con una formula che tende a ripetersi sempre uguale, sono pochi gli album che riescono a comunicare così intensamente.