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Premessa: chi riesce a intitolare un album “Impeach my bush”, giocando su doppi sensi politico/sessuali, per me un po’ di genialità, da qualche parte, la deve avere. E Peaches è così: non passerà mai alla storia per la musica che fa (che in fondo è davvero robetta di poco conto), ma per quello che fa e quello che dice.
Anche questo terzo album è un tripudio di metafore sessuali, beat minimali (ripetitivi e banali, verrebbe da scrivere) e tanta sana e grezza ignoranza, ma Peaches è molto più colta di quello che vuol far pensare: gioca con le parole sconvolgendo il loro significato e dando loro valenza politica (il titolo stesso dell’album, o il modo in cui ripete annoiata e arrapata pat my ben, pat my ben, pat my benatar in “Stick it to the pimp”, coinvolgendo nel gioco di parole la vecchia hard-rocker), riprende temi cari alle riot grrrls (“Boys wanna be her” riprende e aggiorna in chiave electro “Rebel girl” delle Bikini Kill) e chiama in causa anche una vecchia gloria come Joan Jett, straordinaria in “You love it”, uno dei numeri più duri del lotto; che Peaches faccia tutto questo con estremo divertimento è fuori dubbio, però c’è molta meno casualità di quanto voglia far credere.
Certo, dopo un po’ il gioco stanca; però la ragazza sa essere estremamente efficace (la strepitosa intro di “Fuck or kill”), sfodera piccole evoluzioni nel proprio suono (“Tent in your pants” la porta in territori hip-hop affini al vecchio sodale Gonzales, mentre “Downtown” la fa sembrare una Goldfrapp sessualmente più credibile) per poi colpire durissimo con mazzate hard-rock un po’ scontate ma molto, molto divertenti. Ecco, il punto è proprio questo: sebbene non sia un disco eccezionale, vale la pena di accostarsi a “Impeach my Bush”, proprio perché un po’ di sana ignoranza e di scarsa raffinatezza, ogni tanto, fanno davvero bene all’umore.
Teniamoci stretti i piccoli gioielli indie e depressi per l’autunno e le sue giornate fredde: ogni tanto non è male sentirsi deliziosamente cafoni. E Peaches fa il lavoro sporco per noi.