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Dan Tracey è sempre stato uno sgangherato apprendista artigiano. Non c’è un disco dei Television Personalities che suoni come un disco normale. Tra gli anni ’70 e gli anni ’80 il gruppo inglese era il primo a rivitalizzare quella particolare scena pop che in seguito ha racchiuso anche gli Smiths, gli Housemartins e i Wedding Presents, ma lo faceva a modo suo: lo-fi ante litteram e do it yourself quando l’autoproduzione non era che una parolaccia nella mente di qualche fanzinaro drogato. Di quel periodo rimangono dischi memorabili – e assolutamente di culto – come “And Don’t the Kids Just Love It”, dove la melodia pop e l’attitudine punk disegnavano un’estetica che negli anni molti hanno imparato ad adorare (come, ad esempio, i Pastels o gli Hefner). A quasi trent’anni dalla formazione, la band se ne esce con un nuovo disco, “My Dark Places”, che chiude un periodo in cui è stata soggetta di compilation tributo, articoli retrospettivi e un movimento di scoperta che ha reso parzialmente giustizia alla prima fase della loro carriera in cui non erano che sconosciuti. Ma il risultato non è esaltante quanto le premesse. Ok l’ironia, il cut’n’paste e la filosofia punk – ma punk sul serio – che imperversa la bizzarra produzione artistica di questo disco, ma quello che manca sono proprio le canzoni. Non faccio la figura di chi rimpiange i tempi perduti dell’indie-pop, ma dopo averlo ascoltato per diversi giorni, sembra quasi che a questo disco manchi la chiave di lettura. Sembrano dei bizzarri esperimenti col laptop. Dei provini al banco mixer. Delle prove di scrittura alternativa. A volte pare di essere nel cervello di un Cappellaio Matto (oddio, non che Dan Tracey sia proprio un santo…) e, dopo diverse ore, si arriva alla conclusione che non esista alcuna via di uscita. Suona un po’ come se le Shaggs avessero avuto a disposizione anche dei computer e uno zio alcolizzato a cantare. Non è esattamente il massimo.