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Mi dispiace, ognuno dovrebbe fare quello che sa fare. E la new-wave gli americani non la sanno fare, tranne alcuni casi sparuti (leggi Interpol). Qui siamo veramente ai ferri corti, e sorprende che qualcuno (PitchFork) ci caschi; del resto bisogna sempre far finta di tirare fuori il coniglio dal cilindro.
I Wilderness arrivano al loro secondo album in due anni, ed è già una stranezza. Ma quello che sorprende di più è che volino oltre mari e monti fino ad giungere nei nostri stereo, e dire che noi in Italia siamo lontani da Baltimora. Ma li abbiamo già sentiti: se vogliamo ascoltare il sound cupo e depresso, magniloquente e drammatico dei Wilderness ci basta scartabellare nella pila di cd e tirare fuori, magari un po’ impolverati, i Joy Division e PIL. Insomma, va bene che si va a cicli, che adesso gli Anni Ottanta te li cerca di rifilare anche la Surina, che c’è chi cerca rimasugli nel cassonetto, ma c’è un limite alla decenza (e alla nostra sopportazione).
Di una cosa si può dar merito ai Wilderness: di costruire una discreta pasta sonora, essenziale al punto giusto con una chitarra tagliente e spigolosa, poi però il cantato monocorde e indisponente ti deprime istantaneamente. Era più convinto e carico a cantare il cane dei Pink Floyd in “Seamus”. E poi ci sarà anche chi crede che le note sono un optional, per noi anche no.
Speriamo finisca questo accanimento terapeutico sugli Anni Ottanta. Quando anche nell’happy meal ci troveremo un nuovo gruppo alla Wilderness come gadget, allora vorrà dire che forse si è arrivati alla fine, pronti per il revival dei Novanta. La Surina sta già provando le camicie a quadrettoni.