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intervista di Hamilton Santià e Luca Vecchi
Ride spesso durante la nostra telefonata Robert Fisher, leader dei Willard Grant Conspiracy. Ride quando gli ricordiamo che fanno 10 anni da quando si è messo a capo della sua band che nel 2006 ha pubblicato il sesto album. Ride con amarezza quando racconta come le major di oggi trattano la musica. Ride di gusto invece ricordando come è nato il pezzo scritto insieme a Steve Wynn (e quando pensa al cibo italiano). Si fa serio però quando spiega che no, non è vero che “Let It Roll” è un disco fatalista. Si illumina quando pensa al viaggio che sta facendo insieme alla sua band, tra ballate acustiche e rock. Alla fine di ogni pensiero fiume di Robert Fisher spunta sempre una speranza.
“Let it Roll” è il vostro sesto disco e arriva a 10 anni da “3 A.M. Sunday@ Fortune Otto’s”, come riassumi questo decennio di esperienza a capo di una band?
(ride) Adesso è come dieci anni fa. Faccio le stesse cose di allora. Spero di fare le cose meglio come band e io come autore di canzoni, ma non molto è cambiato rispetto a dieci anni fa. Non so se è un bene o un male, se è un miglioramento e se dovrei esserne fiero oppure no. Chi fa musica non programma la propria carriera. La musica è qualcosa che nasce spontaneo da me e dalle persone con cui suono.
Sei soddisfatto di come sono andate le cose in questi dieci anni?
Sì e no. Sono contento della musica che abbiamo fatto. E’ sempre una sfida, per arrivare ad un pubblico che non ci conosce ancora. Credo che siano tante le persone che devono ancora scoprirci. E per far sì che questo accada abbiamo deciso insieme ai promoter di tenere i prezzi bassi. Negli ultimi tempi i prezzi, anche dei club, sono aumentati tantissimo. Se facciamo biglietti tra gli 8 e i 10 euro chi ha sentito parlare di noi sarà invogliato a venirci a sentire. Questa è un po’ la mia frustrazione. Per la musica indipendente è difficile raggiungere un pubblico. Il nostro amore per la musica e la volontà di arrivare ad un pubblico giusto per noi è quello che ci fa andare avanti.
Secondo te, perché è così difficile per la musica indipendente arrivare ad un pubblico nuovo?
E’ per come è organizzato il business musicale. Negli Stati Uniti ci sono due gruppi radiofonici che controllano circa il 40% degli ascoltatori. Basta questo per spiegare quanto è difficile passare. Se escono centinaia di dischi alla settimana e chi fa i programmi radionifici mette in rotazione solo due o tre canzoni nuove alla settimana è difficile. Ed è difficile anche perché le major discografiche e le indipendenti non possono competere ad armi pari. Le major possono permettersi di giocare d’azzardo e perdere molti soldi, tanto che solo il due per cento delle uscite discografiche porta loro dei profitti. E si chiedono come mai il business sta crollando… è colpa loro, se smettessero di pubblicare merda forse la gente inizierebbe a comprare i dischi. Quindici anni fa le major hanno detto che non avrebbero più investito sulla crescita degli artisti, è per questo che se vai in un musicstore non c’è più catalogo, ci sono solo le ultime uscite. E questo è triste. E questo è perché le major hanno iniziato a considerare la musica come un bene di consumo e non come cultura e arte. I giganti della discografia degli anni ’50 e ’60 credevano nella musica come cultura. Mi spiace insistere su questo, ma qualcuno deve dirlo. Non ho nessuna speranza di arrivare ad una major (ride), nessuno busserà alla mia porta offrendomi un sacco di soldi, quindi non rischio niente a dire questo. Ad un certo punto le major hanno deciso che il loro pubblico erano i ragazzi fino ai 16-17 anni, in particolare le ragazze, e di ignorare gli altri. Non si è mai vista un’industria che conquista dei clienti e poi se ne disinteressa. Perfino i produttori di giocattoli hanno un programma per mantenere i bambini come clienti fino a quanto non saranno diventati genitori. Tutti tentano di mantenere il proprio pubblico una volta che l’hanno conquistato. Ma credo che i ragazzi si stiano rendendo conto di essere manipolati. Un ragazzo di 15 anni che vive a Roma e guarda Mtv, che cosa può avere in comune con persone piene di gioielli o che guidano auto costosissime? Lentamente i ragazzi stanno riscoprendo musica di qualità, e questo è grandioso.
Possiamo considerare questo disco come la fine di un ciclo? Ascoltandolo sembra essere permeato da un maggior fatalismo rispetto al passato.
Tu credi? Non so, non c’avevo pensato, non sono sicuro che sia così. Anche in una canzone come “From a Distant Shore” che parla di guerra alla fine c’è speranza. Però sì, “Let It Roll” ha un testo che si basa sulla tradizione delle murder ballads in cui chi parla in prima persona è l’assassino che sta per essere impiccato ma che alla fine trova il modo di pentirsi. Invece in questo caso credo sia interessante che il protagonista non si penta. Certo, quella canzone è molto scura ma non credo si possa dire lo stesso di canzoni come “Dance with me” o “Mary of the Angels”. Questo disco è stato realizzato da una band, rappresenta quello che abbiamo fatto in Europa negli ultimi due anni.
Come sono nate le canzoni? Lo stile narrativo fa quasi pensare che dietro ad ognuna ci sia una storia.
Certo, mi piace pensare che sia così. Non amo scrivere come se tenessi un diario, quello che cerco di fare è combinare elementi della mia esperienza con osservazioni su come va il mondo inserendo anche elementi di finzione. Cerco di scrivere storie aperte in modo che l’ascoltatore possa identificarsi. Questo è l’aspetto interessante del fare musica in modo aperto, dove non c’è solamente collaborazione tra i musicisti ma anche tra questi ed il pubblico. La musica che facciamo vuole accogliere non escludere. Ci sono tante band che portano avanti il mito del rock’n’roll, dei musicisti e delle star. Sono stronzate. Senza il pubblico non esisti. La musica è conversazione, dici qualcosa ma ricevi anche una risposta. Ci sono tante star del pop che vengono mitizzate e non si prendono il tempo di ascoltare il pubblico, quella non è comunicazione completa. E lo stile narrativo della nostre canzoni permette alla gente di partecipare.
Credi che questa partecipazione ci sia anche in luoghi come l’Italia dove l’inglese non è poi così diffuso?
Hai ragione, l’Italia e la Spagna sono probabilmente i due paesi in cui è più difficile. Ma la musica rappresenta piuttosto bene i testi dal punto di viste delle emozioni. Questo perché quando scrivo lascio che la canzone sia quello che vuol essere, cioè la musica va dietro a quello che è il significato dei testi. E’ come per la musica classica, che non ha testi ma questo non impedisce alla gente di essere coinvolta emotivamente. E comunque anche se non capisci parola per parola si può avere un punto di vista e a percepire l’onestà della band. Si riesce a disingere tra un gruppo che fa solo il suo mesterie e uno che suona come se fosse il loro l’unico concerto.
Al disco partecipa anche Steve Wynn, in una delle canzoni forse più “solari”, “Flying Low”, com’è nata la collaborazione?
Una sera stavamo parlando su internet e ho avuto l’idea di provare a scrivere un pezzo insieme attraverso la rete. Abbiamo buttato giù alcune righe, le abbiamo messe insieme ed è nato il testo, poi io ho scritto la musica e l’ho chiamato per fargliela sentire. E un anno dopo eravamo insieme ad una trasmissione in radio a Los Angeles ed io ho suonato la canzone in quell’occasione. “L’hai finita allora” ha detto Steve (risate). La cosa divertente é che mentre la stavo componendo nel mio salotto è entrato mio nipote che sta imparando a suonare il basso e ascolta cose tipo Korn. Ha chiesto cos’era quella canzone e ha iniziato a cantarla, allora ho pensato che doveva essere un bel pezzo! E poi quando abbiamo registrato ho deciso di inserirla nel disco. Steve è uno dei miei eroi musicali ed è un amico, lo rispetto molto e sono felicissimo ogni volta che lavoriamo insieme.
L’anno scorso avete concesso alla rivista Mucchio Extra un vostro live esclusivo, cosa ne pensi dell’Italia e del suo pubblico?
Adoro suonare qui, se potessi verrei più spesso. Il pubblico è sempre grandioso. L’Italia non ha bisogno di importare cultura. Tutti i tipi di arte qui sono ad alto livello e si ha la sensazione di essere in un luogo differente, non è come andare in Gran Bretagna dove la musica americana è stata importata e poi rielaborata. L’Italia è un paese che mi piace molto, per diverse ragioni, in particolare per le persone. E poi il cibo è ottimo (ride).
C’è qualche artista italiano che hai notato e con cui ti piacerebbe collaborare?
Non ne ho incontrati molti, ma ho un amico che suona nei Satellite Inn. Sfortunatamente non ho la possibilità di conoscere molte band perché quando sei in tour non è facile vedere altri concerti, ma sarebbe bello farlo.
Come mai avete deciso di inserire la cover di Dylan? C’entra qualcosa il fatto che si tratta di un pezzo piuttosto scuro?
E’ una buona domanda. C’ho riflettuto se inserirla o meno. L’avevemo registrata perché la rivista Uncut ci aveva chiesto di partecipare ad un disco tributo a “Highway 61”. Stavamo facendo il tour durante il quale abbiamo registrato il nostro album e dovevamo registrare il pezzo velocemente. Abbiamo scelto “Ballad of a Thin Man” perché è il pezzo che ci stava meglio. Siamo andati in uno studio in Olanda che è collegato ad un locale, non suonava nessuno quel giorno e abbiamo potuto registrarla dal vivo, siamo stati lì circa 10 ore. Eravamo tutti molto contenti del risultato. L’abbiamo remixata, infatti la versione che c’è su “Let It Roll” è diversa da quella che si trova nella compilation di Uncut. La band voleva inserirla e io credo che sia stata parte dell’esperienza del tour in cui abbiamo registrato il disco e mostra come lavora una band dal vivo. Inoltre bilancia “Let It Roll”, perché sono due canzoni rock potenti. L’album è una sorta di dichiarazione, ci sono molte persone che ci vedono come una band acustica e posata e molte che non sono mai venute ad un nostro concerto (ride). Questo album è un viaggio, così come lo sono i nostri live. Alterniamo momenti intimi e rumorosi ed il disco rappresenta quello che siamo come band. E questo mi fa piacere. E’ bello passare dalle ballate acustiche a pezzi tirati e potenti. E’ fantastico, vorrei che fosse sempre così.