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“C’era un albero d’argento vicino al fiume dove andavamo ad appendere le nostre cose belle. Uova d’oro, rossetti e piume, pezzi di vetro, candelieri, ciondoli, bottiglie di vino vuote, eguardavamo la luce trapassare tutto questo”: fotografa mondi immaginati, My Brightest Diamond, e li circonda con una musica che potrebbe essere dei Banshees spogliati da ogni furia punk, se solo avessero chiamato la Kate Bush più teatrale a scrivere le loro canzoni.
O almeno, questa è l’impressione che lasciano le prime due canzoni di “Bring me the workhorse”, perché il resto del programma contiene molto altro: movimenti usciti da un musical triste (“Gone away”), murder ballads (“The robin’s jar”), l’oscurità che esplode all’improvviso come nelle pagine migliori dei Castanets (“Magic rabbit”); o ancora, la perfezione delle melodie e di archi melodrammatici (una “The good and the bad guy” che perfeziona quanto fatto dagli Ilya), una voce che – perfettamente padrona di sé – sibila come la PJ Harvey di “To bring you my love” tra la polvere sottile delle dissonanze (“Freak out”) e subito dopo vola tra cori vespertini (“Disappear”)…
A questo disco manca una direzione, ma non sorprende; Shara Worden, la ragazza/diamante, che suona qualsiasi cosa e arrangia meravigliosamente gli archi del disco, ha talmente tante esperienze nel suo curriculum da rappresentare la schizofrenia: figlia d’arte e appassionata di jazz, studia canto lirico e finisce per fare la corista a Mariah Carey (!) e a Whitney Houston (!!), per poi stancarsi di lustrini e attenzioni riservate ad altri e passare alla corte di Sufjan Stevens, e infine riversare tutto in “Bring me the workhorse”.
Ben venga, allora, la mancanza di direzione, se i risultati sono questi melodrammi wave, questa capacità di mischiare visceralità e favola: “Bring me the workhorse” è fatto di undici microcosmi teatrali perfetti. Ringraziamo Whitney e Mariah per averla liberata: Shara Worden è un talento straordinario, e questo è uno dei miei dischi dell’anno, nessun dubbio.