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Ho aspettato un po’, cercavo il momento giusto per ascoltare questo disco: la tradizione Constellation – e le voci femminili emerse dal collettivo artistico canadese – non sono mai state sinonimo di ascolto facile e rassicurante. Perché la Bozulich avrebbe dovuto fare eccezione? Poi, l’immersione nell’inferno, e la rivelazione: non esiste un momento giusto per ascoltare questo disco. Semplicemente perché non si è quasi mai pronti ad affrontare faccia a faccia il dolore gridato al volto, con i suoni che sembrano voler scarnificare la pelle, comunicarti disagio fisico fin dal principio.
Ostico, oscuro, terribile: gli oltre nove minuti di “Evangelista I” sono l’equivalente sonoro dei “Cancelli dell’inferno” di Rodin: una viola sepolcrale, cigolii, fruscii, rintocchi di campane, e una voce che, all’improvviso, rimane sola, come un’anima deragliata alla ricerca della luce. Un predicatore fanatico porta la sua parola tra questi suoni desolanti, e porta il brano a un apocalisse di archi e grida.
Superato questo scoglio terribile, tutto sembra più semplice, perfino gli esasperanti silenzi di “Steal away”, o interferenze che deturpano la melodia felice di “How to survive…”.
Conoscendo la biografia della Bozulich, la sua adolescenza passata tra droga e prostituzione fino all’illuminazione improvvisa data dall’aver ascoltato Schubert, è facile pensare che tutto questo dolore venga dal privato: la sua musica, più che una catarsi, è un vero e proprio esorcismo compiuto attraverso la voce, come nelle migliori pagine di Diamanda Galas, o di una Patti Smith in pieno fervore religioso. Solo intorno alla metà del disco si ha la sensazione che tutto sia una macabra messinscena (una “Baby, that’s the creeps” che sembra uscita dalla penna del primo Cave), e ci si accorge di come, in fondo, questo “Evangelista” abbia tutta questa forza emotiva solo grazie alla voce della Bozulich: dopo una efficace e caotica cover di “Pissing” dei Low, l’ambiente sembra pervaso da una completa dislessia sonora, che insiste su fruscii e disturbi d’ambiente per nascondere una scrittura che, altrimenti, sembrerebbe fin troppo povera e sempre uguale a se stessa.
Non esiste un giusto stato d’animo per affrontar questo disco, si diceva. “Evangelista” è discesa agli inferi, è bellezza e tragedia nascosta in ogni piega. Ed è un viaggio che si affronta non più di una volta, temo.