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L’incubo che ha perseguitato gli Hogwash fino a oggi è stato quello di un paragone costante con I fratellini maggiori Verdena, e certo non li ha aiutati ad emergere per la loro oggettiva bravura nello scrivere canzoni eleganti, energiche, sorridenti.
A ben vedere, però, un legame sottilissimo coi fratelli Ferrari rimane: i Verdena fecero una cover di “Harvest” di Neil Young come b-side di un vecchio singolo, ma poi proseguirono verso i loro lidi di crudezza romantica; gli Hogwash, invece, sembrano ripartire proprio da Neil Young, o da tutti quelli che sanno unire la tradizione rock americana con le melodie storte di scuola lo-fi (qualcuno ha detto Silver Jews?).
Eppure, anche stavolta gli Hogwash si mostrano tanto bravi da non essere semplici amanuensi di un suono già costruito altrove: vuoi per una batteria che proprio non ne vuole sapere di adagiarsi su ritmi regolari, vuoi per un gusto pastorale che emerge dall’uso dei flauti e del mellotron (una “Red heart shaped petal” degna dei Mercury Rev), vuoi per gli scatti in avanti di chitarre che ricordano ancora come ruggire (con eleganza in “My dear December”, più scapestrate in “Fools do pay”), la band bergamasca confeziona un disco davvero delizioso.
E gli sguardi non si limitano solo oltreoceano: le malinconie scozzesi di “Goodbye letters”, o quella meraviglia chiamata “Holes in my maps” (la canzone che i Gomez non sanno scrivere più), o ancora i cori hippie che chiudono l’album guardano all’Inghilterra meno trendy, quella con un retrogusto degli anni ’70 più bucolici.
Niente male davvero, queste mezze falsità…