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Il punto più lontano dalle origini verso cui l’hip-hop si è spinto è curiosamente anche quello più vicino ai suoi progenitori. E la musica dei Kill The Vultures è talmente ricca ed entusiasmante da rendere questo paradosso perfettamente sensato.
Mentre l’hip-hop mainstream si adagia sullo stereotipo da ghetto pimp, e la scena alternativa non fa che scimmiottare le band anticon mentre si immischia nel glitch e nel post-rock, i Kill The Vultures riportano l’essenza di questa musica alle origini, quando era davvero il suono dei bassifondi, della ribellione, quando era sangue e non immagine; e, curiosamente, fa tutto questo allontanandosi dagli stilemi hip-hop per creare un ibrido industriale, metallico, jazz, rumoroso.
Inevitabilmente meno folgorante dell’omonimo esordio dello scorso anno, “The careless flame” è comunque un disco fuori dall’ordinario; una volta partiti dal bordone di sax e dalle percussioni metalliche che aprono la cantilena ubriaca di “Moonshine”, è come entrare sul set di un film noir, dall’atmosfera perennemente piovosa e colma d’ansia per un pericolo che non sai da dove potrà arrivare.
La creatività del combo di Minneapolis è paragonabile alle pagine migliori del free jazz, e non è raro che sia proprio Coltrane a venire alla mente, quando il sax si fa unico elemento riconoscibile di una melodia dilaniata in “The spider’s eyes”, o quando si fa strada tra il fruscio dei vinili e corde orientaleggianti (“How far can a dead man walk”), o ancora nel meraviglioso contrabbasso che attraversa “The wine thief”.
Altrove il disco colpisce con durezza: “Dirty hands” è un tormento percussivo costruito su bidoni e lamiere, l’aggressività delle parole violenta un pianoforte classicheggiante (“Vermillion”), la quiete contemplativa di “Days turn into nights” viene interrotta di colpo da uno scoppio e da un basso ultradistorto e catramoso (“Strangers in the doorway”).
Per niente immediato o accomodante, “The careless flame” è l’hip-hop che recupera la sua rabbia, la propria origine bassa e meno patinata; l’eredità del free-jazz passa dalle oscurità di un gruppo di Minneapolis a maggioranza bianca: chi l’avrebbe mai detto?