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Non basta metterlo come sottofondo per apprezzarlo. Siamo nel 2006 ma a volte ci sono ancora dei dischi per cui vale la pena mettersi lì ad aspettare e leggere parola per parola tutte le righe delle canzoni e farsi distruggere da tutti gli elementi musicali che le accompagnano. Perché sì, è pur sempre canzone d’autore, ma quando entrano quei violini (così funerei, così lontani dalla torch-song e da Richard Hawley, che pure piace, da queste parti) per accompagnare quella voce nel lento tragitto verso il cimitero è una coltellata al cuore. Micah P. Hinson torna sul luogo del delitto e questa volta non fa prigionieri, uccidendo tutti quelli che ai tempi di “The Gospel of Process” erano riusciti a sopravvivere. Lo fa con un disco che è puro sangue sul pentagramma ed è la dimostrazione che il ragazzo, il male di vivere, ce l’ha dentro. Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando gli Earlies lo salvarono dal certo oblìo per farlo diventare – semplicemente – il migliore cantautore degli ultimi anni (Will Oldham non vale, è fuori concorso e poi ha pubblicato anche un sacco di merda), ma Micah è ancora lì. E non si schioda. E anche se riesce ad arricchire la malinconia terminale con arrangiamenti arditi e dall’ampio respiro (“Jackeyed”), affiora in tutta la sua tenebrosa bellezza. Se fossero delle immagini, i dischi di Micah P. Hinson sarebbero delle rose nere appassite.
Tra canzoni piratesche (“Diggin’ A Grave”, “It’s Benne So Long”), momenti quasi carnevaleschi (“Letter From Huntsville”) e zone d’ombra sussurrate (“Drift Off To Sleep”) il nostro caro ragazzo del Texas dimostra di essere cresciuto come musicista – la ricchezza delle parti strumentali rispetto al precedente, forse anche per merito del cambio di band – ed è maturato come autore, colpendo dritto dove vuole colpire e facendo esplodere il fuoco solo nei momenti davvero necessari (“You’re Only Lonely”, se mai decidessi di volere un funerale dopo la mia morte vorrei questa canzone. Oltre all’opera omnia degli Yo La Tengo, ma questo è un altro discorso…).
Ne stiamo parlando come se ancora fosse un novellino, ma Micah sta a molti metri da noi e ai suoi “colleghi”. Quando lo raggiungeremo sarà troppo tardi. Magari lui non ci sarà più. O magari avrà pubblicato solo immonde porcate, ma questi due dischi restano qui per dirci che tra il 2004 e il 2006 il vero erede di Johnny Cash è stato uno e uno solo.