Share This Article
Il tempo, per Ornette Coleman, non è certo passato invano: se nel concerto reggiano del 1990 il calderone incandescente del movimento free aveva impedito una scorrevole comunicazione con i gusti di un pubblico assai poco ricettivo alle novità stilistiche portate dal musicista texano, oggi, alla venerabile età di 76 anni, ben lungi dal considerarsi – o farsi considerare – uno statico e fossilizzato monumento o guru della musica jazz, Coleman si è evoluto o, meglio, continua ad evolversi: un’evoluzione che non cancella nessuna fase del proprio cammino, ma ognuna ricomprende e di ognuna fa tesoro. Una creatività prodigiosa che gli consente tra l’altro, nei suoi concerti, di offrire al pubblico musiche sempre nuove e originali. In un panorama jazzistico nel quale forse troppo spesso spadroneggiano gli standards più o meno reinterpretati – e più o meno esaltati dalla critica – a scapito della creazione originale, Coleman svetta ancora come un picco isolato.
Secondo di un trittico di concerti organizzato nell’ambito della manifestazione emiliano-romagnola “Concerti contemporanei”, quello reggiano ha confermato ancora una volta la vitalità di un artista poliedrico, musicalmente onnivoro, un maestro sempre disposto ad imparare e ad intraprendere nuove strade sulla via di quella forma “armolodica” da lui stesso inventata. Smussati gli spigoli più aspri del rivoluzionario free jazz delle origini, una sorta di comune musicale nella quale tutti gli strumenti godevano democraticamente dei medesimi diritti espressivi, questo nuovo “classic free”, come ci viene fatto di chiamarlo, tira le fila di gran parte della tradizione musicale jazzistica, dal bebop allo hard bop, dal free al jazz elettrico e al funk. Ma non solo: dopo essersi confrontato di petto con la musica colta del Novecento, atonalità compresa, Coleman recupera genialmente quanto di più ordinato, cristallino, strutturalmente “scritto” e, allo stesso tempo, incredibilmente improvvisato sia stato concepito in musica: vale a dire le suites per violoncello di Bach. C’è a nostro parere, in questa scelta, un significato ben preciso che va ben oltre il semplice ammiccamento citazionistico e forse un po’ kitsch: costruendo un intero pezzo sulle note della suite n. 1, eseguite dal contrabbasso, sulle quali il sax alto stende un velo di lancinante modernità sonora, si vogliono esprimere allo stesso tempo le diversità e la continuità nell’ambito dell’unica, eterna, aspirazione a creare musica.
Ornette Coleman al sax alto, tromba e violino, Tony Falanga al contrabbasso, Al McDowell al basso elettrico, Denardo Coleman alla batteria: questo il quartetto delle meraviglie, espressione allo stesso tempo di delicatezza e potenza, grazie anche ad una batteria ben nutrita, pressoché rock nel numero di piatti e tom-tom. I brani si alternano con regolarità nei toni, ora più aspri e arrabbiati, ora più lirici: di un lirismo veramente sorprendente per Coleman, quasi commovente. La presenza del basso elettrico, mirabilmente equilibrata e mai invasiva, consente al contrabbasso brillanti distrazioni dalla funzione ritmica, consentendo potenti dialoghi paritari con il sax. E viceversa. Questo classic free suona certamente meno democratico di quello antico, il leader è leader sostanzialmente solista; ma schegge impazzite, rivendicazioni paritarie esplodono talvolta con sorpredente efficacia, come energie vitali conculcate e mai dome, ribelli.
Un’ora e un quarto di concerto sull’onda di un nuovo album, “Sound Grammar”, il primo dopo dieci anni di silenzio discografico, testimonianza di un concerto tedesco di fine 2005: e se ne esce con la netta impressione che mai come ora il grande sassofonista texano abbia raggiunto lo status di autentico classico fuori dal tempo. Nel primo dei suoi nuovi concerti italiani, tenuto il 6 a Bologna, Coleman ha eseguito la celeberrima sinfonia, o meglio concerto grosso (come definito da Arrigo Polillo), “Skies Of America”, nella versione originale per quartetto e orchestra (Orchestra del Teatro Comunale di Bologna). Domenica 8, a Modena, ha invece bissato il concerto cameristico di Reggio, con un programma – prodigiosamente! – differente dal titolo “When Art Cries”.