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Il senso di “The Eraser” è probabilmente possible ritrovarlo nell’autoritratto deforme e stilizzato che Thom Yorke si (ci) concede nella custodia del cd – custodia quantomai spartana, ridotta a un unico grande disegno, su cui tornerò in seguito -. Ma cos’è davvero Thom Yorke al di fuori del ruolo di capitano di lungo corso per la nave/Radiohead?
La risposta sarebbe dovuta risiedere per l’appunto nell’uscita estiva di “The Eraser”, primo album solista della voce solista della band di stanza a Oxford: il condizionale è d’obbligo, visto che a conti fatti questa uscita in solitaria non convince appieno, lasciando al contrario ben più di un dubbio nell’ascoltatore. E non mi riferisco ora ai fans di vecchia data, visto che molti di essi (strana la vita) si sentirono traditi nel passaggio dal pop di “The Bends” all’ibrido di “Ok Computer”, nella svolta tecnocratica del dittico “Kid A”/”Amnesiac”, nel parziale ritorno alle origini (???) in cui fu letto e inquadrato “Hail to the Thief”. No, inutile cercare razionalità di giudizio da queste parti; la triste verità è che “The Eraser” fa penetrare dubbi a qualsiasi livello: nel fan incallito, nell’onesto appassionato di musica (ruolo che si tiene ben lontano dal manicheismo marcato a fuoco nella tifoseria), nel poveraccio senza pretese che accende la radio mentre si fa la doccia o sta lavando i piatti. E non si pensi che stia ragionando su categorie troppo ampie: i Radiohead, e Yorke come logica conseguenza, sono oggi come oggi tra le band più famose del pianeta – o meglio, di quella porzione di umanità che si interessa al rock -. Ne è dimostrazione palese il primo posto nelle classifiche verso il quale si è proiettato a ridosso dell’uscita questo “The Eraser”: che è un album incomprensibile.
Non si riesce a capire quali motivi possano aver spinto Yorke ad abbandonare temporaneamente il gioco di squadra per incaponirsi a cantare brani che non si distaccano nemmeno per un secondo dalla lezione impartita dai Radiohead solo un lustro fa: se ci fossimo trovati di fronte a un gruzzolo di canzoni folk acustiche e trattenute avrebbe avuto anche un senso tutto ciò, ma le nove tracce di “The Eraser” sembrano essere semplicemente outtakes di “Kid A”. Fratellini meno fortunati che, a corto di idee, vengono ripescati e messi in mostra (alla berlina?) per sopperire al calo fisiologico di ispirazione. E invece Yorke ce le vende come nuove composizioni create ad hoc per prendersi una breve pausa dal faticoso lavoro di gruppo: ed è qui che i dubbi esplodono. Non si può negare la classe a Thom Yorke (che si fa comunque accompagnare in questa sortita fugace da Nigel Godrich e, nella title-track, da Johnny Greenwood), e neanche l’onestà; a dirla tutta almeno un paio di brani (“Analyse” e “Black Swan”) propongono trame e intuizioni piuttosto interessanti, ma non basta di certo. Il mondo della musica non è ancora giunto al punto da doversi accontentare dei resti smozzicati dei grandi autori, ed è giusto – per quanto doloroso – bocciare un esperimento come “The Eraser”, privo di idee a tal punto da confondersi in un attimo nella mente.
Continui pure a cantare del crollo dell’umanità occidentale (come evocato dalla splendida copertina, ed ecco che mi ricollego al discorso intrapreso all’inizio della disanima) Thom Yorke, e continui a farlo secondo i codici musicali che gli sono più congeniali: perché se c’è una cosa che ho sempre trovato straordinaria e fondamentale nei Radiohead, al di là dello splendore delle opere, è l’assoluta libertà con cui Yorke e compagnia hanno sempre fatto respirare i vari lavori. Quella libertà creativa che sinceramente in “The Eraser” trovo celata, mutilata, vinta da un desiderio di non osare che non è proprio del suo creatore e che non può portare da nessuna parte.
In attesa del nuovo album dei Radiohead – di cui, come da prassi oramai, si è iniziato a parlare anni prima -, non c’è consiglio che valga per Thom Yorke: sono certo che si è trattato di un misero incidente di percorso, una vera e propria inezia che nessuno, di qui a un paio d’anni, ricorderà. Per adesso si goda il successo di pubblico, che quello se lo merita sempre.