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Io? No. Mai stato un grande fan degli Arab Strap. Di solito, le sbronze tristi, l’ossessione per il sesso e la malinconia tremeda erano cose che conoscevo anche senza che qualcuno me ne cantasse costantemente. Però, ora che la storia è arrivata alla fine, devo dire che mancheranno. Perché avevano la capacità di cantare le cose più intime senza nascondersi, di mettersi a nudo fino quasi a farti sentire a disagio. Chissà se c’era ironia, in tutto questo, o solo un’ossessione autocompiaciuta. Chissà se Aidan Moffatt era a proprio agio a biascicare quelle parole come il piccolo Bukowski di Falkirk.
Riascoltare dieci anni di loro musica tutta in un disco, tra piccoli successi, b-sides e gemme nascoste (la meravigliosa cassa in 4 avvolta al violoncello di “Rocket, take your turn” è il rave più malinconico che abbia mai vissuto), è un dolore perfetto. Perfect pain, cone si firma un utente su Amazon che ha recensito il loro dischi.
Si passa dalla sporcizia del demo di “Islands” al memorabile incipit di “Packs of three” (it was the biggest cock i had ever seen, ricordate?), dal plagio dei Notwist in “The shy retirer” al ricordo dei Fall in una splendida resa live di “Gilded”, fino alla versione per archi di una delle loro gemme tratte dall’ultimo bellissimo “The last romance”, “If there’s no hope for us”…
C’è tutto il mondo degli Arab Strap, qui, o quasi: un mondo triste, grigio, che si è aperto alla luce solo alla fine, con quella “There is no ending” che rimbalzava felice e innamorata tra i fiati. La sensazione è che la band si sia sciolta nel momento più alto della loro carriera, quella dove stava iniziando a uscire dal proprio clichè, ed è un peccato. Sarebbe stato bello scoprire dove la felicità dell’ultimo periodo li avrebbe portati. Abbiamo un’ultima occasione: stanno per arrivare in tour in Italia. La loro ultima apparizione, prima di salutarsi definitivamente. E chiudersi dentro un pub per l’ennesima volta. O godersi una gioia inattesa. Chissà.