Share This Article
Il 17.11.06 è il giorno di uscita del cd “Terreste Live e Varie Altre Disfunzioni” e del dvd “Be Human: Cronache Terrestri – Tour 2005”, occasione per pubblicare una cordialissima chiacchierata con Samuel fatta vis à vis un po’ di tempo fa, prima dell’uscita di questi due nuovi capitoli discografici.
Raccontaci delle differenze tra il “Terrestre Tour” nei palazzetti e il “Be Human Tour” nei club.
Nell’album “Terrestre” ci siamo concessi delle libertà, ci siamo permessi di fare delle cose in più, e lo stesso volevamo farlo nel live. Di conseguenza dopo aver fatto il tour nei palazzetti – che è andato molto bene, con molto coinvolgimento perché siamo riusciti finalmente a riadattare la musica scritta in studio per il palco – il desiderio era quello di tornare alle origini, di cercare gli stimoli e gli spunti da dove eravamo partiti: i club. Nel 1° anno di vita i Subsonica hanno fatto una roba tipo 220 concerti, tutti in posti piccoli dove c’era una sorta di intimità di fondo che poi negli anni è andata persa, per ovvi motivi, più gente c’è.
Noi amiamo più il club del palazzetto, siamo più festaioli. Il concerto è un momento di unione, di festa con il pubblico. Ci piace il fatto che nel club, finito il concerto, non ti mandano via. Dopo noi facevamo il dj set: tutti e cinque mettiamo i dischi, amiamo stare in consolle e fare le ore più disperate. La sera del centro sociale di Marghera, il Rivolta, avevo pensato: “Oh, finalmente abbiamo trovato un posto dove nessuno ci dirà di smettere” e invece anche lì alle 6 di mattina ci hanno chiesto di finire! (Risate)
Si parla tanto del vostro rimbalzare dall’elettronica al rock e viceversa, ma una linea magari minoritaria però costante in tutti i vostri album è il dub. E’ vero?
Più che di dub io parlerei di una certa propensione all’utilizzo dell’effetto. Il dub nasce proprio da delle basi giamaicane effettate, e il reggae fa parte del nostro dna perché arriviamo da una città, Torino, in cui si è ascoltato parecchio reggae, senza considerare che Max suonava negli Africa Unite. Pur non essendo un gruppo reggae abbiamo capito che ci piace lavorare su quegli effetti. Molto spesso nostre composizioni partono proprio da un effetto, addirittura in “Dentro I Miei Vuoti” dal vocoder.
“Terrestre” è stato meno sperimentale di “Amorematico” o nella musica dei Subsonica sono più sperimentali la chitarra acustica di “Dormi”, i riff di chitarra elettrica di “Gasoline” e gli archi veri?
Credo di sì. La nostra musica nasce dall’interazione di cinque persone del gruppo. C’è stato un momento in cui, dopo molta strada, il gruppo era orientato verso l’interno, mostrava le spalle all’esterno. “Amorematico” è arrivato in quel periodo lì abbastanza travagliato, di conseguenza sono affiorate le parti più nascoste, più ostiche, più “malate”. Il nascondersi più che il mostrarsi. E la voce filtrata dal vocoder è emblematica del nostro volerci celare di quella fase. “Terrestre” è stata la reazione per rigirarsi spalla a spalla verso l’esterno ed affrontare il lavoro in una maniera più aperta, più solare. Per i Subsonica un pezzo con solo la chitarra acustica, una voce e dei “suonini” sotto è molto sperimentale. (Infatti nel 2° cd “Varie Altre Disfunzioni” abbinato a “Terrestre Live” i Subsonica hanno inciso delle versioni acustiche di alcuni loro pezzi – n.d.a.).
Capitolo testi. Luca Ragagnin si può considerare il sesto Subsonica?
In qualche modo sì. Luca più che autore dei testi in prima battuta, che scriviamo io e Max, ci aiuta nella stesura, ci dà dei consigli, conferisce una sorta di aria che noi – più concentrati sulla musica e meno pratici con le parole di lui che è scrittore – non avremmo. Grazie a lui riusciamo a volte a sbloccarci: magari prende il testo, te lo smonta, te lo rimonta e tu da lì riparti con un vigore maggiore.
Le vostre liriche raccontano per la maggior parte di storie personali, ma ci sono anche quelle di impegno civile. Esempio ovvio, “Sole Silenzioso”. Quanto è importante per i Subsonica questo lato?
E’ fondamentale. All’interno del gruppo ognuno di noi porta qualcosa che in qualche modo sensibilizza l’altro. Ci raccontiamo le nostre esperienze, sia le storie d’amore che le riflessioni legate ad aspetti sociali, e tutte queste entrano a far parte del nostro mondo comunicativo. Per cui magari una sera dedichiamo “Sole Silenzioso” alla gente della Val di Susa, penso che sia naturale.
Beh, non è detto che lo sia: ci sono i Modena City Ramblers che fanno della politica una bandiera e c’è chi, come i Marlene, nei testi se ne disinteressano…
Sì, Cristiano è più un pittore di immagini, a me piace moltissimo il suo modo di scrivere. Noi siamo una sorta di via di mezzo: amiamo raccontare il reale, portare quello che c’è fuori all’interno del nostro mondo. Di conseguenza è naturale raccontare della Val di Susa se in quel momento ci siamo andati e l’abbiamo vissuta intensamente.
Com’è il vostro rapporto con la comunità virtuale di subsonica.it?
Abbastanza buono. Abbiamo questa interfaccia che è il “Diario di Bordo”, che sostituisce la fanzine che molti gruppi hanno e a volte viene loro anche un po’ imposta. Abbiamo sempre optato per un confronto diretto e giornaliero coi fans.
Questo rapporto diretto non sminuisce l’alone di “divo”?
Non abbiamo mai basato il nostro rapporto con il pubblico sul “divismo”, non fa parte del nostro mondo. Purtroppo oggigiorno chi fa musica è soggetto ad una sorta di immaginario così, ma credo che le persone apprezzino di più questo tipo di contatto diretto.
I discografici ci dicono che il mercato illegale della musica ha superato il mercato legale. E’ la ragione per cui in Italia i gruppi sotto i riflettori sono ancora, per la maggior parte, degli Anni Novanta?
In verità ci sono tante realtà nuove, ad esempio gli Offlaga Disco Pax di cui ho apprezzato molto un loro video. Il problema è che la discografia italiana è legata alla ricerca della “copia”: i Subsonica hanno fatto quello che hanno fatto e si deve cercare la copia dei Subsonica. Invece ogni gruppo vive di un meccanismo suo che funziona solo su di lui. Il cercare la “copia” ha anestetizzato il mercato.
(Paolo Bardelli)