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C’è sicuramente un perché se tanto il pubblico metal quanto quello alternative rock serba per la band di Maynard Keenan un rispetto e un’ammirazione comune, sebbene sia difficile trovare una precisa collocazione per la band tra questi due generi. La classificazione, in fondo, è relativa. Ciò che stupisce ed affascina allo stesso tempo è la sconfinata varietà di vedute che è allo stesso tempo claustrofobica. Un gruppo che ha saputo scrivere due capolavori come “Aenima” e “Lateralus” e che è tornato con questo nuovo lavoro dopo il periodo A Perfect Circle del suo leader. Suoni ruvidi e aggressivi, chitarre graffianti e la solita sbalorditiva perfezione di Danny Carey alla batteria fanno dei Tool un gruppo tecnicamente all’avanguardia. Claustrofobia, come detto, incubi ad occhi aperti, atmosfere cupissime come nella doppia title track. Una sorta di elegia la prima parte, non meno scura e malata la continuazione. Pezzi più “easy” musicalmente come “The Pot” e la lunga “Rosetta Stoned” sono forse i salvagenti per chi non è avvezzo completamente alle sonorità di questa complessa band. Sebbene non sia esattamente ciò che si definisce la mia tazza di thè, non si può negare come anche questo nuovo disco possieda una carica di energia ma soprattutto emotiva stupefacente. Settantacinque minuti tesi ai massimi livelli. Con un finale da tomba che fa impallidire i gruppi che vivono di immagini sataniste o nomi orribilmente ridicoli. La concretezza dei Tool è ancora una volta davanti a tutti.