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Avvertenza: questa recensione è inutile. E lo è per un motivo: chi ha aspettato per nove anni il nuovo disco dei Casino Royale, è volato nei negozi lo stesso giorno dell’uscita di “Reale”. Il giorno dopo, al massimo. Chi altro potrebbe bramare questo disco? Certo non chi non li poteva soffrire già dieci anni fa, ed è difficile che Alioscia e compagni possano fare breccia in cuori nuovi: “Reale”, dunque si confronta con la nostalgia fin dal principio, e vi si arrende; ma, una volta tanto, non è un male.
Quello che hanno fatto i Casino Royale è identico, fatte le dovute proporzioni, a quello che fece Trent Reznor nel passaggio da “The fragile” a “With teeth”: dopo un disco monumentale (e incompreso) giocato tutto sulle atmosfere e sui suoni, si passa a un disco di canzoni vere e proprie, che portano il marchio di fabbrica della band abbandonandosi a soluzioni più semplici.
Ai milanesi, però, è andata decisamente meglio che a Trent Reznor, perché le dieci canzoni di “Reale” hanno una classe inimitabile, e ci ricordano perché, per anni, i Casino Royale sono stati un esempio: rimasti in piedi anche dopo l’abbandono di Giuliano Palma (e il King viene liquidato con “dopo un tot di mani sono scomparsi uno ad uno…chi stava bluffando ha preferito mollare” nella frenesia ritmica di “Royale sound”), si sono messi nelle mani di qualcuno con il loro stesso background (Howie B, mago dell’elettronica e passato punk-rock) e hanno fatto ciò che sanno fare meglio: suonare, semplicemente.
Alioscia si incarica anche dei cantati più melodici, e lo fa egregiamente: il birignao dell’iniziale “Tutto” fa temere il peggio, ma da lì in poi ogni cosa scorre pressochè perfetta: i fiati di “Easy tranquillo” aprono a un ritornello morbidamente psichedelico;“Prova” è un singolo vischioso come pochi, grazie a quel giro di pianoforte; il ritmo è sempre mutevole e nervoso (la scura “Platico mistico”, o le luci notturne dello strumentale “È già domani”), e vive a fianco dei ricordi del passato trip-hop (una “Protect me” che sarebbe stata perfetta, con quel coro soulful, per “Blue lines”, e una “In my soul kingdom” fascinosa e perturbante).
Ancora una volta, è la città il cuore pulsante del disco: la Milano dei Casino Royale è diventato un posto dove, alla paranoia esistenziale, si è sostituita un’agitata rassegnazione che la band non rinuncia a ritrarre, come nel lunghissimo battito insonne di “Milano double standard” o nelle immagini di famiglie spezzate in “Quello che ti do”. Insomma, saremo nostalgici ma, nonostante il tempo che è passato (o forse proprio per quello), il ritorno dei Casino Royale è felice e riuscito oltre ogni aspettativa.