Share This Article
Quando vidi gli En Roco dal vivo per la prima volta, deliziosi e acerbi com’erano, mi rimase impresso un particolare: Enrico, il cantante che a fatica guardava il pubblico negli occhi, indossava una vecchia maglietta dei Jesus And Mary Chain. Un bel contrasto, per chi era seduto su uno sgabello colorato a cantare canzoni timide sorrette da chitarre acustiche e violini, frasi gentili e fuori tempo.
A distanza di tempo, l’anima più rock degli En Roco è venuta fuori con maggiore evidenza: lontani dal rigdo dettame acustico di “Prima di volare via”, “Occhi chiusi” ha un suono più corposo, fisico, dove riescono a emergere chitarre elettriche e ritmiche più sostenute.
Tredici canzoni dove la grazia dei primi tempi non è andata perduta, ma è coperta da una disillusione fortissima, mascherata da sorrisi amari; chiudere gli occhi diventa non un modo per sognare ed estraniarsi, ma per riflettere ancora più a fondo su un mondo che non si riconosce più: frasi come “siamo stanchi di sobrietà da cantare con energia” (“La denuncia”), o immagini come quella dell’istrione che sorride senza ricordare perché davanti alla gente intontita (“L’attore si è perso”) disegnano un piccolo mondo di pessimisno leggero, di fragilità.
“Occhi chiusi”, nonostante la breve durata, è un disco molto denso, dove le spinte rock di brani come “Giorni senza fretta” o “Tento la fortuna” (la densità del basso, l’elettrica a fremere in controluce) sono riportate alla melodia da una voce carezzevole, eppure impietosa con le parole che canta. Ammesso che questi cinque ragazzi non siano di questa età, (come cantano alla fine di “Occhi chiusi”) certo la sanno rappresentare molto bene.