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Un anno fa concludevo la recensione di “People Have Ceased to Ask Me About You” con la frase “domani è un altro giorno”: tradotta nel gergo comune la chiusa serve a risvegliare un sentimento di speranza, ad accendere una luce nel buio. Per i Morose tutto questo non vale: loro, come sintetizzato nel bel titolo, sono sull’altro lato della strada, alle spalle di tutto, anche della speranza.
Sono il buio, la sconfitta; descrivono un mondo in bianco e nero e lo fanno senza aggiungere alcun orpello ma ricercando con forza lo scarno, il semplice, il ruvido. Gli accostamenti musicali fatti in passato non mutano di una virgola, siamo sempre dalla parte del cantautorato oscuro (che anche Davide Speranza abbia visto una tenebra anni fa?), delle ninnananne omicide alla Black Heart Procession, del fraseggiare minimo e indispensabile dei Dirty Three, ma tassello dopo tassello è impossibile non rendersi conto di come i Morose abbiano scavato una vera e propria trincea nel panorama musicale italiano (e non).
Nessuno gli assomiglia, nessuno forse vuole assomigliar loro, ma questo ha poca importanza: ciò che conta è che nel loro viaggio di svelamento della realtà umana – nel senso proprio di spoliazione velo dopo velo di ogni artificio retorico – sia necessario perdersi per ritrovarsi. Ci si trova così spiazzati da trombe ectoplasmatiche (come nella splendida “Rain Dance”), si scopre di essere sempre stati cullati dai cavalloni dei mari in tempesta, si cerca rifugio negli angoli più bui, ma senza più troppa fiducia.
Quella dei Morose è la visione pessimistica di chi ha avuto modo di fissare negli occhi l’abisso e ha scoperto, suo malgrado, di farne parte: cerca disperatamente di mettere da parte gli umori più melanconici, dolcemente perduti, ed è pronto a trasformarli in rumore. Perché è l’unica cosa con cui potrà, forse, combattere ciò che lo circonda. Per ora resta il pianto sommesso, avvolgente e unico, di chi ha conosociuto la consapevolezza. Un album da restare senza fiato, se lo si capisce veramente.