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“Spiderland” è un album importante per varie ragioni: è innanzitutto uno degli album grazie ai quali si inizia a citare il termine critico “post-rock”, che tanta influenza avrà su tutti gli anni ’90. E’ altresì un album nel quale si rilegge la storia recente del rock (punk, new wave ecc. ecc.) mostrando di averne compreso in pieno l’impronta rivoluzionaria e riuscendo a far convivere quella rivoluzione con basi musicali totalmente diverse (la doverosamente osannata “Washer” è diventata col tempo un vero e proprio standard-jazz). Ed è infine, è giusto ricordarlo, un album semplicemente splendido.
La band di Louisville è formata da David Pajo (uomo ovunque dell’indipendenza rock degli ultimi dieci anni: nei Tortoise di John McEntire per la registrazione di “Millions Now Living Will Never Die”, membro dei Forn Carnation e degli Zwan di Billy Corgan, è lui la mente unica dei Papa M), Britt Walford, Brian McMahan e Todd Brashear – nuovo acquisto dopo la dipartita del bassista Ethan Buckler, andato a formare i King Kong -, ed è reduce da un ottimo album d’esordio, “Tweez”, prodotto da Steve Albini e capace di condensare liriche complesse a strutture ritmiche basate sulla frammentazione.
Le stesse basi di partenza che sono evidenziabili da subito in “Spiderland”: il tintinnio chitarristico, sposato alla fluidità, che insieme alla batteria accompagna il parlato è destinato a fratturarsi in una stasi dalla quale riparte con la medesima struttura, prima che l’andamento si faccia più cadenzato, la voce più sforzata e l’incedere tradisca le matrici musicali di appartenenza. Ma anche questa catarsi musicale è destinata ad essere interrotta, spezzata, in un intermezzo più puramente hardcore nel quale la voce si fa baritonale, preludio alla disperazione successiva, nuova fuga emotiva. Lo scontro tra fuga e prigionia musicale caratterizza il brano, apparendo quasi come una drammatizzazione dell’evento, che evapora in una stasi angosciante nel quale lottano rintocchi, improvvise accelerazioni e acidità chitarristiche. Ma tutto è destinato a tornare alla norma, all’inizio, in un cerchio che non può far altro che chiudersi su se stesso. Il testo, praticamente una poesia, si sposa alla perfezione con questa andatura ritorta su se stessa, acuendone l’aspetto tragico.
“Nosferatu Man” mostra un interesse per la reiterazione, in una corsa ad inseguimento tra gli strumenti che non ha possibilità di conclusione; la voce ora è poco più di un sussurro, che diventa urlo nel cambio di ritmo, duro e spigoloso. Così come gli strumenti si inseguono e si sovrappongono, anche la struttura stessa del brano sembra inseguirsi senza sosta, sovrapponendo le varie parti che la compongono e portando all’estremo il discorso sull’ossessività, vera e propria poetica autoriale della band. Tra l’altro gli Slint dimostrano di riuscire a far convivere, cosa assai rara, un gusto per il minimalismo e per l’essenzialità – suoni spogli, crudi, secchi – una passione per la frammentazione e un’attitudine innata per il crescendo emozionale.
“Don, Aman” è un brano praticamente imperniato sull’intro di chitarra, monotono e solitario, sul quale si dipana un sussurro occasionale; la chitarra si fa improvvisamente più profonda e incalzante, l’esplosione è nell’aria e arriva proprio quando sembra essere stata rimandata per sempre, con la chitarra distorta che prosegue nel crescendo. Ma tutto svanisce improvvisamente, trasformandosi nell’intro per poi sparire completamente.
“Washer” è, con ogni probabilità, uno dei brani migliori composti nell’intero arco del decennio che ha accompagnato la morte del millennio: l’intro è come al solito affidato alle chitarre ma la voce irrompe sul rimbombo secco della batteria con le parole “Goodnight, my Love”. Il testo è accompagnato da minimalismi portati all’estremo da parte degli strumenti, mentre i delicati flussi armonici fungono da collante, prima di mutare per l’ennesima volta pelle, in una rincorsa al trasformismo che non ha eguali nella musica del periodo.
“For Dinner…” evidenzia ulteriormente i rimandi della band ad un certo stile di jazz e sembra quasi una coda spuria al capolavoro “Washer”, uno strascico doveroso, quasi una testimonianza della difficoltà di allontanarsi da quel brano che appare sempre di più come l’apice dell’intera avventura-Slint.
L’album si chiude sull’incedere catatonico e quasi metronomico di “Good Morning, Captain”, con parlato annesso e solita deflagrazione musicale che ripiomba nella norma della strofa: ogni tanto si fa strada un riff vagamente arabeggiante, ma la sostanza non cambia di molto, ed è giusto che sia così. Perché si possono tirare fuori tutti i nomi del mondo, dai Wire ai Can (“Nosferatu Man”, soprattutto), dai Joy Division ai Virgin Prunes di “If I Die I Die”, dai Velvet Underground (ma questo abbinamento è troppo ovvio e banale) a John Fahey fino al blues, ma la verità è che ogni influenza possibile è stata trasformata da questi quattro signori in innovazione, stravolgimento dell’ovvio, rivoluzione. Forse loro si reputano figli dei nomi elencati, sicuramente sono stati tra i padri di molti gruppi seguenti. E se questo è poco, allora…