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Io me li ricordo i Sodastream. Convinto da una recensione, comprai a scatola chiusa il loro album del 2001, “The hill for company”, e ne rimasi folgorato. Lo ascoltai ininterrottamente per mesi, mi si insinuò dentro con la stessa dolcezza delle canzoni che conteneva. Riuscii a vederli dal vivo: vennero a suonare gratis nella mia città, e mi stupirono ancora di più, coniugando suoni pacati, maestria esecutiva e un mix di umiltà e timidezza quasi da nerd. Che è poi un po’ la descrizione del look di Karl Smith e soprattutto di Pete Cohen, un bassista dalle spalle larghe, con occhiali spessissimi e capelli lunghi e lisci. Li vidi addirittura in tivù, in quel magnifico programma che era “MTV Supersonic”, talmente interessante che durò troppo poco.
“The hill for company” aveva destato l’interesse nei loro confronti, il successivo “A minor revival” aveva cambiato un po’ le carte in tavola senza deludere minimamente. Ora è venuto il momento di “Reservations”, e l’impressione è che molti si siano già dimenticati di loro. E va bene che non è nella natura di Karl Smith e Pete Cohen, e nemmeno nell’essenza della loro musica, proporsi come fautori di una rivoluzione di qualsiasi tipo, soprattutto considerando che in “Reservations” le sonorità tornano scarne come ai tempi di “The hill for company”. Tuttavia, il gruppo non merita di essere dimenticato, non merita di essere snobbato soltanto perché passa sostanzialmente inosservato, non crea clamore, non fa rumore ma si offre sempre sottovoce, senza pretese.
Per chi non si è mai dimenticato di loro, “Reservations” rappresenterà un nuovo motivo per amarli: fin dall’iniziale “Warm July” ci si rende conto di quanto l’album sia puramente “sodastreamesco”. “Anti” ballonzola tranquilla, e ha l’effetto di un calmante, “Twin lakes” saltella gioiosa e ritmata, “Tickets to the fight” introduce una prima nota di malinconia. La pianistica “Anniversary” ha l’andamento di una ballata ancestrale, piovosa e meditabonda. Il dittico formato dalla strumentale “Michelle’s cabin”, in cui Pete si dedica all’altro strumento prediletto: la sega, e da “Firelines” costituisce il passaggio più propriamente triste del disco. La title-track ci risolleva, ma non troppo, mentre le conclusive “Don’t make a scene” e “Young and able” ci riconducono sui terreni della ballata melodica che ti si incolla addosso.
Un nuovo tassello di una discografia talmente diversificata da non sembrarlo affatto, “Reservations” serba in sé alcuni elementi del tutto nuovi, che non emergono prepotenti all’ascolto, ma che vanno cercati minuziosamente, esplorando una musica minuziosa e minuta per sua stessa natura. Per chi non li ama soltanto da ieri sarà una piacevole riscoperta, per chi non li conosce ancora potrebbe essere il giusto punto di partenza per cominciare ad apprezzarli. In ogni caso, è lampante che solo i Sodastream possono suonare come i Sodastream, e l’essere titolari di uno stile riconoscibile e di atmosfere del tutto proprie, è una dote piuttosto rara nonché la conferma delle capacità dei due australiani.