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Come la figlia di un giocatore di squash pakistano cresciuta sotto una rigida educazione religiosa sia diventata a 28 anni uno dei nomi nuovi più interessanti della scena musicale europea fa molto commedia british alla “Sognando Beckham”. Importerebbe poco francamente, se “Sognando Björk” non si arrivasse dopo solo un album all’attivo ad essere richieste dalla musa islandese come spalla nel tour di quest’anno dopo l’esperienza dell’anno scorso al fianco di Devendra Banhart nell’All Tomorrow’s Parties. Il film delle sue Bat For Lashes è già scritto, insomma. Se a ciò si aggiungono, poi, gli attestati di stima di altri big, da Jarvis Cocker passando per Kate Bush e per la playlist dei 10 migliori singoli del 2006 firmata Thom Yorke, in cui comparivano come unico nome pop, in una list infarcita di nomi della scena electro, house, dubstep e techno.
Nessun trucco, è bene precisarlo. Perché alla base del loro successo non ci sono semplicemente i giusti testimonial o il giusto videoclip – suggestiva rappresentazione dell’angosciante desolazione di “What’s A Girl To Do”, ballad dai tratti pericolosamente gotici – nominato agli Europe Music Awards di Mtv probabilmente per intuizioni visionarie alla Donnie Darko più che per l’inizio alla “Just Like Honey”.
Più semplicemente c’è il talento cristallino di Natasha Khan e delle altre tre partner di Brighton. Non è poco venire fuori con un album di tale personalità e di tale vena melodica senza adeguarsi alla fitta schiera di giovani connazionali che incoraggiati dal revival dilagante non riescono più a scrivere una buona pop song che non sembri la cover sbiadita dei grandi degli anni 70 e 80. Perché se pure le Bat For Lashes a tratti possono richiamare nella voce la fascinazione per il plumbeo di Siouxsie, o più concretamente nelle sonorità, alcuni episodi di Björk (nell’unico spiraglio di luce in un album così tetro, il viscerale sfogo molto islandese di “Bat’s Mouth”, ma non solo…) e altre cantautrici come la stessa Bush (nel brano più debole e stucchevole dei dieci, “Sad Eyes”), è difficile etichettarle superficialmente come cloni di questo o quello.
Non che non brillino quando in scarne ballad per piano e poco altro (la vellutata “The Wizard”, l’onirica “Seal Jubilee”) la Kahn prova ad affiancarsi a illustri colleghe del calibro di Tori Amos, Cat Power, Feist, ma gli habitat di queste creature della notte dall’aspetto rassicurante sono altri.
La loro formula che inserisce minimali incursioni elettroniche e arrangiamenti gelidi in una strumentazione classica, quasi orchestrale votata a un pop dalle venature chiaramente dark, colpisce subito e regge alla distanza, facendo di “Fur And Gold” uno degli esordi più sorprendenti del 2007, più in generale, uno di quegli LP da ricordare nei consueti resoconti di fine anno.
Basta ascoltare “Horse And I”, il brano che Thom Yorke aveva messo in cima alla personale playlist dell’anno scorso, per convincersene da subito. Un theremin scheletrico incalza la magnetica voce della Khan che si invola nell’oscurità tra nubi di violini, controcori e clavicembali. Senza voler dare ragione a tutti i costi all’illustre estimatore di Natasha e socie, è una canzone come da tempo non se ne sentivano. Non l’unica. Natasha diventa la risposta femminile a Patrick Wolf nel mistico folk medievale di “Tahiti”, ideale sottofondo per un rito wicca nei boschi, e nell’electro-pop di “Prescilla”, più spensierato ma non meno fatale. Fatale come la convinta attrazione per panorami lugubri da Cocteau Twins dei nostri giorni. L’incubo ad occhi aperti di “Trophy” si avvicina molto all’idea di canzone che farebbero propria Elizabeth Fraser compagni vent’anni dopo. Un distillato di trip-hop depurato di ogni base e campionamento del quale rimane saldo il tempo, l’andatura ipnotica e la voce fredda e avvolgente sospesa nel nulla. E la polistrumentista anglo-pakistana – non solo voce, ma anche basso, piano, clavicembalo, percussioni, chitarra, basi, percussioni – si trova particolarmente a proprio agio in questi paesaggi perfettamente disegnati da Lizze Carrie, Ginger Lee, Abi Fry, le tre che si alternano tra arpe, tastiere, viole, violini, chitarre e impercettibili percussioni.
Se la torbida “Sarah” accomuna il loro mondo di incantesimi e inquietudini alle perverse inclinazioni noir di PJ Harvey, forse sarebbe la stessa PJ Harvey a invidiarne, per pathos e intensità, l’ultimo atto del dramma. L’ultima luce in fondo all’oscuro viaggio delle Bat For Lashes è una luce amara ed effimera. Quella di una macchina in fiamme tra i boschi. “Una coppia si era suicidata – racconta Natasha con schiettezza – vidi la luce affievolirsi mentre mi allontanavo. E dissi addio.”
A lei in fondo va bene così.