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Normalizzazione? No, credete a me: i Deerhoof, la normalità, non sanno nemmeno dove stia di casa. Oppure, se lo sanno, se ne tengono volutamente alla larga. Giunti al nono album, sembrano un po’ più addomesticati, ma la miglior immagine per descrivere la loro musica rimane quella di un frullatore: un gigantesco contenitore dove finisce dentro di tutto, e dagli ingredienti più inaccostabili esce un succo divertente, danzabile, intelligente.
Il meglio di questo “Friend opportunity” arriva all’inizio e alla fine: succede di tutto in “The perfect me”, una sottospecie di samba soffocata di stomp, tastierine horror e cafonissimo rifferama hard rock anni ’70; negli undici minuti di “Look away”, invece, si cammina su territori math, ipotizzando gli Uzeda capaci di sogni felici. Il resto è (stra)ordinaria amministrazione, più o meno buona; da applausi a scena aperta gli scampoli di suono impazziti di “Believe E.S.P.” (tra barattoli percossi e bleep che costruiscono man mano una marcetta circense) o la sognante, quasi disneyana, “Whither the invisible birds?”, o ancora la tromba giocattolo sui ricordi Stones (!) di “+81”; il resto della scaletta, invece, avvicina troppo gli scherzi retrofuturisti degli Stereolab, e compromette non poco tutto il resto: insomma, se stiamo parlando di un gruppo che fa dell’imprevedibilità la propria bandiera, non può essere positivo che metà disco ricordi ciò che un’altra band ha fatto già quindici anni fa, no?
È un peccato: preso agli estremi, “Friend opportunity” è un album spettacolare; ma andando a scavare, fino ad arrivarne al cuore, diventa solo un esercizio di stramberie ben fatte.