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Dato che Nick Cave ha smesso di essere oggettivamente interessante quando ha smesso di drogarsi (e non parliamo dei fan terminali, ovviamente), cerchiamo soddisfazione altrove, in lidi inesplorati che possano catturare l’essenza cruda delle canzoni paludose e funeree, di quel folk da patto col diavolo che, seppur modificato attraverso la decadenza post-punk dei Bad Seeds, era diventato cavallo di battaglia dell’australiano. Devastations, quindi. Nomen omen. Disco faticoso e tetro, quasi arrogante nel presentarti la sua miscela maledetta che oltre a Nick Cave si estende al dark side di Johnny Cash, alle cupezze di un Leonard Cohen sotto anti-depressivi, a dei Willard Grant Conspiracy dimentichi del barlume della speranza e di un Mark Lanegan al massimo della sua licantropia. Un’esperienza estenuante ma capace di dare soddisfazioni. “Coal” è uno di quei dischi che una volta entrati sotto pelle, quando si è in determinati mood, possono lasciarti di merda per la sopresa. Come se si scoprisse qualcosa di nuovo ogni volta. E pensare che, superficialmente, si tratta di semplici ballate. Il fascino oscuro conferma ancora una volta la sua efficacia.