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Ne è passata di acqua sotto i ponti di Bristol, autentica patria e ispirazione di un certo tipo di suggestioni, oscure quanto avvolgenti, dai toni elettronici (Massive Attack, Portishead, Spaceways, Smith & Mighty) e meno elettronici (basti pensare a Robert Wyatt o andando a ritroso ai mitici Pop Group), da quando il camaleontico compositore britannico si nascondeva dietro l’ambiguo marchio Third Eye Foundation. Erano i tempi in cui anche lui rimase folgorato da quel movimento sotterraneo che in poco tempo oltrepassò la Manica per invadere l’Europa. Mai dire mai nella vita. Perché basta trasferirsi in Francia, certo è una spiegazione semplicistica e superficiale, ma è quantomeno uno degli aspetti della svolta, per cambiare pelle. I due primi, eccellenti, album da Matt Elliott, “The mess we made” (in cui ancora si avvertiva l’estrazione electro in discreti e soffusi loop) e il capolavoro “Drinking songs” l’hanno visto percorrere sentieri post-rock molto personali, un post-rock poco consono al filone convenzionalmente considerato. Atmosfere notturne, dilatate dalle evidenti tinte folk (senza mai cedere a tentazioni cantautorali).
Il terzo episodio non si discosta dalle nuove, e ormai assimilate, fascinazioni. Dopo le inquietanti elegie della sbornia dell’illustre prequel arrivano altre dodici canzoni. Per esprimere in musica qualcosa su cui nessuno di noi prova gusto a soffermarsi, il fallimento. Esperimento ambizioso, è una prospettiva, la sua in parte riconducibile, per tematiche, al decadentismo e i maledetti dello spleen. I tre minuti e mezzo di apertura, una “Our weight in oil” che sembra riecheggiare dall’oltretomba, sono qualcosa di più concreto di un semplice ammonimento. Le scariche elettriche della minacciosa “Chains” l’angosciante brivido lungo la schiena che risucchia l’ascoltatore in un vicolo senza uscita. Virtuose le anomale riedizioni di stampo-Elliott di quelli che, dal ritmo, potrebbero sembrare un walzer,“The seance”, un sirtaki greco, nel caso della torbida titletrack “The failing song” o un flamenco, “Broken bones” (se non altro per le chitarre che danno una sferzata alle linee slowcore dei primi pezzi). Tra violini e organetti deliranti, cari a quelle zoppicanti ballate dei balcani (“Good pawn” piacerebbe molto a Kusturica) e chitarre orrorifiche, sembra di percepire un unico flusso di note.
Vengono alla mente le splendide cavalcate senza tempo del maestro Yann Tiersen, sensazione che per altro già si avvertiva in “Drinking songs”. Un ponte ideale tra mittel-Europa ed Est-Europa. Su tutte la romantica sinfonia per chitarra “The ghost of Maria Callas” e l’insostenibile malinconia della splendida “Desamparado. Suggestioni cinematografiche e immaginifiche da sogno. O, più adeguatamente, da incubo. La voce, funerea e rassegnata, rivela al meglio il magnetico espressionismo di Elliott nelle fasi in cui gli arrangiamenti si fanno più scarni e scheletrici. Si ascolti la solenne “Lone gunmen required” e la pianistica “Compassion fatigue”, ovvero come Scott Walker reinterpreterebbe “Berlin” di Lou Reed. Un disco che non lascia speranze, nonostante i “bagliori” della conclusiva “Planting seeds” che è l’ultimo scossone prima degli evanescenti vagiti di chiusura.
Per sopravvivere al fascino di queste “Failing songs” non si può far altro che subirle in tutta la loro inaccettabile essenza.