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Piccole linee, connessioni che esistono da millenni: l’area del Mediterraneo è tutta così, ed è attraverso questi legami che sono nati i Radiodervish e il loro meticciato musicale, partito da Puglia e Palestina per raccontare il mare magnum e le sue genti. “Amara terra mia” non è semplicemente il loro nuovo disco, arrivato due anni dopo il bellissimo “In search of Simurgh”, che adattava in musica uno splendido poema mistico sufi: nell’ora abbondante di musica vi sono riassunti gli ultimi dieci anni della band, catturati dal vivo assieme a uno spettacolo teatrale realizzato con il sottovalutato attore Giuseppe Battiston.
Anche “Simurgh”, a un certo punto, era diventato opera teatrale, ma in questo caso l’attenzione è sulle genti del Mediterraneo, sugli esseri umani in costante movimento, proprio come nel recente disco di GianMaria Testa: e allora, per raccontare gli spostamenti irrequieti della gente, si chiama subito in causa Domenico Modugno con le cover della sue “Amara terra mia” e “Tu sì ‘na cosa grande”. Proprio come faceva l’uomo in frac, il duo italo-palestinese ha fin da subito cantato in una lingua mista, che unisse l’italiano all’arabo al dialetto, cercando di abbattere i confini tra le genti rappresentandole tutte: e così, il viaggio parte da Modugno per finire negli inferni legalizzati dei CPT, fino agli orrori dell’integralismo e a quelle canzoni (molti i recuperi dal bellissimo “Lingua contro lingua”) scarne e suadenti, su cui la voce seduttiva di Nabil danza con grazia accompagnato, qua e là, da tastiere e violini; suoni ridotti al minimo, dunque, perché le parole possano arrivare ancora più in profondità. Il cuore di “Amara terra mia” è nel disco; il DVD contiene una ripresa dello spettacolo teatrale (ottimamente giocato sull’intermittenza delle luci, come piccole presenze sul palco che appaiono e scompaiono) e il video della title-track girato nientemeno che da Franco Battiato.
Tutto questo potrebbe puzzare di intellighenzia lontano chilometri, ce ne rendiamo conto: eppure, “Amara terra mia” non è nient’altro che la testimonianza coerente di chi ha davvero cercato di unire culture separate, solamente per il fatto di esistere.