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Che il destino del 2006 musicale sia quello di essere ricordato come l’anno di Simon Joyner?
Prima la sempre più meritevole Jagjaguwar licenzia l’ottima compilation “Beautiful Losers”, dove uno accanto all’altro è possibile ascoltare alcuni dei migliori istanti della carriera di questo cantautore del Nebraska, quindi il nostro torna alla carica e accompagnato da uno sparuto gruppo di musicisti – sei, per la cronaca più spietata – manda alle stampe questo “Skeleton Blues”.
Mai titolo fu più appropriato, c’è da rimarcarlo: dopotutto Joyner è uno che nel low-fi è stato svezzato, e non ha alcun timore a svuotare di orpelli inutili la sua musica. La sua voce così dannatamente americana si agita tra malinconie mai troppo selvagge (ah, dimenticavo: il blues di cui sopra è da intendere proprio nella sua accezione etimologica), lunghe digressioni vocali che neanche il Dylan dei bei tempi, contrappunti sonori di un mondo desolato e desolante, mai troppo pacificante.
Saranno pure passati gli anni – quindici, più o meno, dagli esordi – ma Joyner è ancora un bellissimo perdente, uno che non ha mai perso fiducia in se stesso ma non ne ha neanche una briciola da lanciare al mondo di sparvieri che lo circonda e sovrasta. Non a caso si è chiuso, insieme al suo manipolo di fedeli, in una stazione in disuso nel bel mezzo del nulla del Nebraska, per comporre queste sette perle di cantautorato intimista, che hanno il retrogusto ora di Nick Cave, ora (spesso) di Dylan, ma che non sono poi così dissimili da altre traiettorie contemporanee come quelle tracciate da Smog aka Bill Callahan. Le sue liriche sono organizzate intorno ai piccoli, squallidi avvenimenti della vita di tutti i giorni, eppure di quando in quando si scoprono universali, eterni, quasi immateriali. Un po’ come la musica che accarezza il gelo di Omaha e dei nostri cuori per poi irrompere improvvisa come quella batteria dolce che spezza a metà “The Only Living Boy in Omaha”. Già, il solo ragazzo vivo in Omaha: ha le idee chiare, Joyner, e non ha più voglia di nascondersi dietro il proverbiale dito. Cosicché le urla in maniera bislacca al mondo – riportando alla mente, tanto per continuare nel gioco degli accostamenti, anche il sempre adorabile Daniel Johnston – per renderlo partecipe dei suoi sentimenti.
Non sarà il non plus ultra dell’originalità questo “Skeleton Blues”, ma tra le pieghe dei brani che ne compongono l’ossatura è possibile scorgere, neanche troppo nascosta, la verità di chi l’ha composto. E non è cosa da tutti i giorni questa. Anzi…