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Si può rimanere a bocca aperta, con lo sguardo ebete fisso sul nulla, per il semplice fatto di aver ascoltato un album composto di “belle canzoni”? Davvero, al di là di ogni interessante elucubrazione teorica e critica, “To Find Me Gone” altro non è se non un concentrato di levità artistica, nel quale tutto sembra andare naturalmente al proprio posto; un distillato di gentilezza, intelligenza e semplicità. Tre qualità delle quali si denota troppo poco spesso la gravità della mancanza.
E invece Andy Cabic, alla sua terza fatica riesce finalmente nel colpo che potrebbe (può) cambiare radicalmente una carriera: e sì, perché il pur bell’album omonimo d’esordio risentiva troppo spesso delle derivazioni banhartiane e l’EP che l’aveva seguito (“Between”) non riusciva, dato anche il carattere breve del lavoro, a dare compiutezza alle istanze musicali di Cabic. Che è uno di quei cantautori vecchio stile che lavora in maniera sotterranea nella mente e nel cuore dell’ascoltatore, colpendolo quando meno se lo aspetta e trafiggendolo al cuore.
Le sue musiche sono vere e proprie esperienze visive, aprono gli occhi su mondi bucolici sconosciuti. Senza per questo affidarsi a un panteismo di matrice vagamente hippie – come è altresì nel caso di Fursaxa, tanto per fare un nome -, ma senza neanche lasiarsi sedurre più di tanto dalla terracea vibrante vitalità del blues: resta nel mezzo Cabic, e trasporta la sua creatura su terreni insoliti eppure così decisamente storicizzabili da sbalordire.
È infatti fuor di discussione la fascinazione che Cabic prova nei confronti degli anni ’60, lo esplicitano ogni tocco di chitarra, ogni ingresso di archi (come nella vellutata e soffice “No One Word”), ogni delicata frase pronunciata; eppure non c’è un singolo spicchio di banalità, di plagio, di assuefazione stilistica nelle pieghe di “To Find Me Gone”. Nella sua apparente naiveté – in realtà sono certo che Cabic sia fin troppo consapevole delle proprie scelte -, l’album fila via come un’auto da corsa sul rettilineo, divertendo(si) non poco, come sintetizzato in “Idle Ties” e “Won’t Be Me”, dal riflesso spudoratamente solare.
I Vetiver sono sempre stati una creatura di Andy Cabic, ma in passato era impossibile non leggerne la storia dietro le dinamiche di Banhart e del suo entourage freak: ora che non è più così (resta qualche traccia, come la conclusiva “Down at El Rio”, e poco altro), e che la ripresa del pre-war folk sembra aver giocato la sua stagione in pieno, “To Find Me Gone” mostra la maturazione avvenuta di un cantautore che sarà bene tenere d’occhio, se già non lo state facendo.
E se dopo i primi brani pensate ancora di trovarvi davanti a un bravo esecutore di standard – e sarebbe già strano – volate al finale di “Red Lantern Girls” e ascoltate. A buon intenditor…