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È dalle immagini che si ricostruisce il cambiamento: “Confini” era un corpo nudo tra le lenzuola, rosso carnale e purezza; “Tra tutto e niente”, quattro anni dopo, è la trama sottile di lana rosa, calore invernale che protegge dal mondo esterno. È banale dire che il gruppo sia cresciuto, ma è esattamente quello che è successo: dove prima le chitarre si accendevano furiose, sottolineando con enfasi i pieni e i vuoti, qui ci sono pianoforti e archi; non c’è più rabbia, la passione non grida più.
Le dodici canzoni di “Tra tutto e niente” sono un abbraccio consolatorio, sono terapia contro lo spleen generazionale: “Va tutto bene”, uno dei pochi brani dove il ritmo si fa sostenuto, non nasconde la verità (“È già tutto pronto / ma il vuoto è attorno a noi”) ma non grida; ogni cosa è immobile, e non resta che accettarlo. È il pianoforte il vero padrone del disco, capace di aprire le melodie (“Mondocellofan”) o di bastare a se stesso (il bozzetto alla Chopin della traccia senza titolo), di incupire la canzone (“L’errore”) o di ritagliarsi spazi tra l’incedere trip-hop della bellissima “Mai più”; dove è il peso dei ricordi a farsi sentire accorrono gli archi (“I compiti di francese”), dando al tutto una grandissima eleganza.
“Tra tutto e niente” non cancella il ricordo degli Scisma che affliggeva “Confini”, ma quello che ascoltiamo è finalmente qualcosa di molto personale: melodie e rumore si incontrano a metà strada senza sforzi, gli intarsi elettronici sono carte sistemate sul tavolo con gran gusto; e, mentre affiorano altri riferimenti (i Baustelle, i Northpole, Fiamma, perfino i Negramaro – tutto rigorosamente made in Italy, come sull’etichetta del maglione in copertina), capisci che gli Alibìa hanno creato un disco capace di parlare a molte persone.
Elegante ma non lezioso, leggero ma non banale, “Tra tutto e niente” è un disco a cui ti affezioni silenziosamente, a cui torni spesso. Proprio come a quel vecchio maglione che ti eri ripromesso di buttare, e invece…