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Prendono le mosse dal titolo di un libro di J.G.Ballard i Klaxons, ennesimo fenomeno musicale inglese da esportazione che, dopo una nutrita serie di concerti infuocati in giro per l’arcipelago britannico e un paio di singoli fortunati, arriva al primo lavoro sulla lunga distanza, con l’obbiettivo di raccontare le alterne vicende di quello che la critica d’oltremanica ha già ribattezzato “nu-rave”.
A voler essere onesti di rave, in senso stretto, in questo disco (così come nell’attuale scena musicale inglese) non c’è poi molto. Ma a voler essere altrettanto onesti questo finisce col diventare un dettaglio del tutto irrilevante. Il lavoro di questo terzetto di Brighton va infatti ad inserirsi in un filone ben preciso di elettropunk contaminato che trova in gruppi come Simian Mobile Disco, Kasabian, Hard Fi, Shitdisco e Hot Chip (in fondo anche Gorillaz) i suoi alfieri più attivi e convincenti. Il discorso viene inaugurato da “Two receivers” con la sua progressione inesorabile che si arrampica su una linea di batteria dal rintocco marziale: non siamo molto distanti dalle atmosfere sciamaniche di certe illuminazioni Primal Scream prima maniera, ma la psichedelia multicolore del ritornello rimanda alle costruzioni corali e agli ingranaggi melodici perfettamente calibrati degli Stone Roses.
Stesso discorso per “Golden Skans” e per la sua piccola odissea nello spazio in un tripudio di melodie filanti e scie luminose di pulviscolo pop, a pochi anni luce di distanza dalle galassie immaginarie dei Flaming Lips. Tutto intorno una serie di composizioni piuttosto frammentarie e convulse, prese in un pastiche postmoderno che mescola e frulla senza soluzioni di continuità e gerarchie alto e basso, bacchette fosforescenti e fantascienza, Thoms Pynchon e l’Acid House, Kid A e Alesteir Crowley, Jackson Pollock e gli Happy Mondays, in un sovraccarico di stimoli sensoriali e informazioni sovrapposte, sempre in procinto di essere inghiottito da qualche buco nero senza fondo. In questa luce vanno letti episodi come “Atlantis to Interzone”, “Totem on the Timeline”, “Magick” o “Four Horseman F2012”. In altre circostanze i ritmi giocano a rimpiattino con le litanie neotribali dei Tv on The Radio o dei Massive Attack (“Isle of Her”), oppure evocano involontariamente lo spettro danzante della New Wave più trafelata e tagliente e sembra di risentire i Bloc Party o i Bravery (“Gravity’s rainbow”, “Forgotten Works”, “It’s not overet”).
Pur non trattandosi di un esordio esattamente folgorante, il congegno dei Klaxons proietta le sue visioni con sufficiente fluidità e un sincero senso di stupore, riuscendo forse a compendiare nelle sue undici canzoni l’immaginario frastagliato e il bagaglio di riferimenti culturali di un’intera generazione.