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Una volta giunto al Parco Nord, con questa nebbia poco rassicurante che avvolge l’Estragon, mi viene da pensare a che concerto irripetibile verrebbe fuori se Mark Lanegan e Isobel Campbell ci regalassero un fuori programma suonando qui all’aperto. Sarebbero le condizioni climatiche ideali per accompagnare la presentazione del bellissimo, quanto evanescente e rarefatto, “Ballads of broken seas”, inaspettato incontro tra l’angelica musa ex-violoncello dei Belle & Sebastian e il tenebroso songwriter che dal grunge psichedelico sui generis degli Screaming Trees è approdato lentamente verso i lidi più pacati, ma pur sempre etilici e maledetti, del cantautorato rock-blues alla Tom Waits.
Velleitari viaggi mentali a parte, la curiosità è tanta. Sull’impatto che un disco in toni così sommessi può ottenere in un club tutt’altro che intimo, per dimensioni e struttura, più che sulla scaletta che prevedibilmente, sarà incentrata sul suddetto album. E si parte, puntuali, con uno dei brani più riusciti, la scarna e spettrale “Revolver”, accolta da un sorprendente silenzio (di buon auspicio) rotto solo da smisurati applausi, inevitabile sfogo buono per ogni pausa. Oltre alle inevitabili dichiarazioni d’amore dei fan di vecchia data di sponda-Lanegan. Il delirio arriva poco dopo. Ai primi accordi, scanditi dal taciturno chitarrista della band della splendida revisione unplugged della leggendaria “Carry Home” dei mitici Gun Club. L’espressione sofferta di Lanegan dà l’idea di un sentito commiato rivolto a uno dei tanti amici, oltre che colleghi, scomparsi. Come se da chissà dove Jeffrey Lee Pierce potesse ascoltarla e rivivere con noi on the road, questo è certo, più che nell’alto dei cieli dove non si troverebbe per niente a suo agio. Non è l’unica chicca ripescata dal suo repertorio solista. E non è l’unica cover. Tra un pezzo nuovo e l’altro sbucheranno fuori la notturna disperazione di “I’ll take care of you”, il brano del vecchio bluesman Bobbie “Blue” Bland, da cui trae il titolo la raccolta di cover del 1999 che contiene, appunto, l’altra chicca, il terroso country-blues di “Little sadie”. Sempre e comunque accompagnato dalla voce, oltre che dal violoncello, dell’inconsueta partner scozzese.
Fa davvero uno strano effetto vederli insieme. Due voci così diverse che sembrano sempre rincorrersi, rifiutarsi, scontrarsi che come per magia finiscono per autolimitarsi, l’una fiabesca e leggiadra, l’altra cupa e penetrante. Senza che l’una riesca a prevalere sull’altra. Come nel meraviglioso duetto della morriconiana “The false husband” che andrebbe benissimo in uno di quei rari momenti di cinico sentimentalismo offerti con irrinunciabile sarcasmo da Quentin Tarantino. I protagonisti, pur vestiti entrambi di nero, sono una di quelle coppie che mai si sarebbero potute concepire. Tanto distanti per storia, amicizie e tradizione musicale, tanto distanti sul palco. Se lei lo guarda pregna di ammirazione, lui non la degna di uno sguardo. Se lei sorride, lui resta di ghiaccio. Se lei cerca di coinvolgere il pubblico nel ritmato folk di “Deus tibi est” (l’unica fase “movimentata” di questa serata dai toni sommessi), lui resta immobile a occhi chiusi. Se lei ci ringrazia emozionata, lui tace. Se lei quasi goffamente, si dimena per cercare lo spartito giusto, lui rigido impugna il microfono pronto al nuovo brano. Non prima di aver voltato le spalle con quel passo felpato che lo contraddistingue dirigendosi verso la batteria. Dove c’è solo acqua. Oppure lasciando il palco. Per andare a bere qualcosa visto che sul palco, come detto, c’è solo acqua. O magari per fumare, visto che ora neanche gli artisti possono e il Lanegan di oggi non è più tipo da grane con la sicurezza.
Così la scena è tutta per Isobel. E per il suo talento cristallino. Cristallina è la sua voce, sottile e magnetica, che è un tutt’uno con il fedele violoncello. E che è l’unica protagonista nella suggestiva melodia dalle tinte irish di “Saturday’s gone” o nell’incanto spettrale di “Black mountain”. Da ricordare poi due fuori programma niente male. Quando, durante l’esecuzione della più spensierata “(Do you wanna) come walk with me?” le scappa inspiegabilmente da ridere (e qui sì che il burbero partner cade nella rete elargendo un mezzo sorriso che manda in visibilio i fan da transenna) oppure quando il classico invasore napoletano (è una categoria vera e propria, che vede tra le sue vittime illustri, per fare due nomi a caso, Beck e Nick Cave) dà l’assalto al palco riuscendo ad abbracciare, baciare il suo idolo, con tanto di video al cellulare girato dagli amici. Destinazione Youtube magari. Lanegan, sgomento, manco a dirlo, che per altro ha già dilapidato il bonus-sorriso si limita a inarcare le sopracciglia.
Da ricordare, infine, la rivisitazione di “Penso a te” di Morricone, in cui la Campbell sfogia un timido ma efficace italiano, e la perla conclusiva, l’ammaliante e ipnotica “Wedding dress” uno dei brani più affascinanti dall’ultimo album solista di Lanegan, quel “Bubblegum” del 2004.
Dentro, come fuori, ancora la nebbia.