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Essere a soli ventiquattro anni uno degli artisti contemporanei più apprezzati e invidiati non è roba da poco. Ma lui sembra non accorgersene o non volerci fare caso, con quell’aura di fascino bohemien che ingannevolmente gli si associa e che senza mezzi termini ripudia ribadendo la sua visione ottimistica e schietta di libertà (offrire a ciascuno la possibilità di esprimere senza coercizioni la propria forma d’arte), i suoi sogni tutt’altro che pretenziosi, vivere in una casa in campagna, mettere su famiglia, scrivere un libro di fiabe per bambini. Guai a dargli del dandy perché Oscar Wilde gli è poco simpatico. Guai a dargli del libertino, sfruttando magari il titolo del successo del brano più orecchiabile e ballabile dell’ultimo disco, perché nell’accezione comune del termine non si è mai riconosciuto, nonostante le fughe adolescenziali e gli ideali dal respiro estetizzante di fusione delle arti (segue lezioni di danza oltre a cantare e suonare praticamente ogni strumento, dalla chitarra al piano, dalla viola al violino, passando per svariate percussioni, tastiere e chissà cos’altro). Neanche durante gli anni della peregrinazione tra Londra e Parigi, che ispirò visceralmente l’irrequieto disco d’esordio “Licanthropy” (aveva meno di diciannove anni) e, con una tendenza più riflessiva e introspettiva, il romantico “Wind in the wires”, uno dei capolavori più significativi dall’inizio del nuovo secolo, o, se preferite, più sobriamente, del nuovo decennio.
Anche perché la sostanza non cambia, così come non cambia il giudizio sull’incredibile talento del precoce polistrumentista britannico. Cambia in parte il mood in questo attesissimo “The magic position” smentendo la leggera virata verso atmosfere cantautorali dalle venature irish del precedente album, in cui spiccavano sofferte ballate per le quali era stato accostato agli Smiths (tra l’altro anche la sua famiglia ha origini irlandesi come quella di Morrissey). Paragone illustre che sarebbe il sogno di gran parte dei musicisti pop, ma che lui, con il solito candore, ha rinnegato ammettendo di averli ascoltati di sfuggita tramite amici di amici.
Bastano i primi due brani per avvertire la svolta. “Overture”, epica e orchestrale, arrangiata con quel gusto tra musica classica e anni 90 tipico dei Divine Comedy di Neil Hannon coraggiosamente contaminato a una ritmica da Depeche Mode e l’esuberante titletrack, immersa in un fiabesco tappeto di tastiere, fiati e violini, con cui Patrick idealmente sfida gli Arcade Fire nella successione al ducato bianco. E non è un episodio isolato. Sebbene Wolf ammetta, con un candore ancora più indisponente di non averlo mai ascoltato, David Bowie ricorre nell’epico e sofferto crescendo di “Bluebells” e soprattutto in “Get lost”, ovvero come Beck riarrangerebbe Bowie coadiuvato dagli Xiu Xiu. Nello stesso brano è doveroso segnalare come i fiati ricordino uno dei brani più emozionanti, “Boys don’t cry”, dell’altra, tra le poche influenze, i Cure appunto, cui idealmente si potrebbe far discendere l’ineffabile musicista. Atmosfere vivaci e incantevoli che lambiscono il synth-pop, più precisamente le intuizioni di Marc Almond dei Soft Cell, uno dei guru del sound anni80 (che, neanche a dirlo, Patrick non ha mai ascoltato) oltre che dei già citati Depeche Mode, nello stralunato tripudio di tastiere di “Accident & emergency” (aperta da una voce campionata spiazzante) e nelle singhiozzanti accelerazioni di una “The stars” che amalgama con esiti stupefacenti i peculiari violini di Wolf a suggestioni elettroniche tra kraut e Radiohead della destrutturazione (lui ovviamente non li ha mai seguiti ma li conosce grazie a sua sorella che ne è appassionata).
Al di là di tutto, l’abilità sta tutta nel far quadrare il cerchio, in un’alternanza tra quiete e inquietudine (senso della misura che mancava nell’esplosivo album d’esordio) che valorizza le fasi più sommesse, anche grazie a intelligenti e fugaci intermezzi – la fioca viola di “Kiss” e le ambizioni tra avanguardia e musica medievale, la sua unica dichiarata influenza, di “Secret garden” – che contribuiscono a dare quell’organicità prerogativa degli artisti di un certo spessore. Così la struggente “Augustine” che, non me ne voglia, oltre a Scott Walker richiama alla mente gli Smiths e le pianistiche “The bluebell” ed “Enchanted”, notturne e affascinanti quanto le ballate dei Pulp, non restano in secondo piano. Per fortuna.
Arrangiamenti impeccabili, vena melodica eccellente, voce in stato di grazia, per un disco che si lascia ascoltare dall’inizio alla fine senza alcuna resistenza. Siete ancora scettici? La cinematografica “Magpie” scioglierà anche i vostri cuori.