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Dopo tre LP e due EP per la Kill Rock Stars la band di Portland approda ad una major, ma per fortuna non vende l’anima. “The Crane Wife” è un album di amore, morte, guerra, sul quale aleggia, come una tenue traccia concept, la romantica e tragica vicenda della “sposa-gru”, oggetto di una fiaba di origine giapponese: un uomo povero e senza mezzi, rincasando in una gelida notte d’inverno, si imbatte in un uccello – una bianca gru – ferito ad un’ala da una freccia; senza pensarci due volte l’uomo soccorre l’animale estraendo la freccia: la gru può riprendere il volo. Un giorno, passato qualche tempo dall’avvenimento, l’uomo sente bussare alla porta. È’ una bellissima donna che chiede ospitalità. Trascorso qualche giorno l’ospite non accenna a volersene andare, i due si innamorano e infine si sposano. La donna è naturalmente la gru, trasformatasi per gratitudine nei confronti del suo soccorritore. Ma la vita, nonostante la felicità della vita a due, è dura, il denaro scarseggia e l’uomo, per avidità, finisce per rinchiudere la moglie in una stanza a confezionare splendidi tessuti da poter vendere: e così la perde per sempre.
Da questo suo antico pallino, Colin Meloy, leader indiscusso dei Decemberists, ha tratto due pezzi, “The Crane Wife 1 & 2” e “The Crane Wife 3”, collocati rispettivamente, con una brillante inversione cronologica, al nono e al primo posto della track list: ascoltiamo così il sequel prima del prequel, con un azzeccato effetto drammaturgico grazie al quale siamo immediatamente e violentemente proiettati nella finale dimensione tragica della vicenda. Solo verso la fine dell’album verremo a conoscenza degli antefatti. Un procedimento, questo, riflesso dalla differente struttura dei due brani: più breve il sequel, una ballata dalla struttura classica con tanto di struggente ritornello; dilatato oltre gli undici minuti il sequel, quasi una mini-suite divisa in due parti e distesamente narrativa nello svolgimento, nella quale il passaggio, piuttosto marcato all’ascolto, tra la prima e la seconda parte è segnato dalla modulazione in tonalità minore.
Certo le inflessioni progressive non sono certo nuove alla musica dei Decemberists, nella quale, fin da “Castaways and Cutouts” (2002), sono originalmente mescolate influenze folk, pop, prog. Ma è indubitabile che in questo loro ultimo lavoro esse divengano più palesi. Lo conferma soprattutto “The Island”, altra mini-suite di oltre tredici minuti divisa in tre parti, il brano certamente più elaborato del disco, vera summa dello stile della band, che raggiunge qui un folk-progressive talmente affinato da ricondurre alla memoria persino certe caratteristiche dei Jethro Tull, specialmente quelli di “Thick as a Brick”. Il ribollire dell’organo vintage di Jenny Conlee profuma di anni settanta come assai di rado capita di ascoltare. Ma ciò che veramente rende originali i Decemberists è probabilmente il loro essere band statunitense dalle influenze europee. Un po’ come i Rolling Stones, bianchi britannici che reinterpretavano il blues nero americano, così la band di Meloy, Conlee, Chris Funk (polistrumentista), Nate Query (basso) e John Moen (batteria) rilegge il pop-rock britannico attraverso la lente di quello americano, da Bob Dylan (si ascolti l’attacco di chitarra in testa all’album), ai REM. In verità alcune delle indicazioni stilistiche presenti sul sito ufficiale della band vanno prese con le molle: della band di Michael Stipe in verità c’è forse solo qualche affinità nella voce di Meloy, degli Yes e dei Pink Floyd probabilmente nulla. La stessa dichiarazione della novità di “The Crane Wife” rispetto alle opere precedenti è nel complesso esagerata: certo la band ha raggiunto uno stile più classico, fors’anche più normalizzato e conservatore, meno imprevedibile e un po’ più ammiccante, ma mai realmente nuovo.
Comunque lo si voglia considerare rispetto al passato (recentissimo!) della band, “The Crane Wife” unisce magistralmente immediatezza di ricezione e qualità di composizione: la seconda parte di “The Crane Wife 1 & 2”, nel pathos trattenuto del canto dolcissimo e cullante, nel misurato crescendo finale impreziosito da un impalpabile e fiabesco synth, rappresenta un perfetto esempio di “nobile semplicità e quieta grandezza”.