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E’ un album ramingo, questo “No Border”, come è stato ramingo Thomas Belhom in questi anni. Dalla Francia – la sua nazione – ai paesaggi lirici e assolati dell’Arizona, e ritorno. Sulla strada ha incontrato diversi amici – Stuart Staples (Tindersticks), Kim Ohio (Mad River), Paul Nihaus (Lambchop), Volker Zander (Calexico) – che ora lo aiutano in questi undici bocciuoli che si schiudono piano piano, alcuni più abbozzi che altro – bisogna dirlo – ma che costituiscono, nell’insieme, un progetto completo.
Country americano svuotato da tensioni autoreferenziali, autoctone, automatiche, che viene contaminato da sensazioni passeggere, momentanee, altre. Dev’essere la condizione di “cittadino del mondo” di Belhom che lo fa essere sopra a miasmi quotidiani, che gli permette di tinteggiare paesaggi assolati e sfuggenti come quelli di “Pink Turns To Blue” (con splendidi interventi vocali femminili) o concreti e definiti come quelli di “No Border”. Lo dice già il titolo, non ci sono limiti, confini o bordi nei quali comprimere l’ego di Belhom, bastano una slide guitar, qualche nota di vibrafono e un’atmosfera educata e sonnacchiosa.
Non per essere perniciosi, però un limite bisogna annotarlo: quello di avere inciso alcuni pezzi forse con mezzi limitati, facendo sembrare scelta ciò che appare – oggettivamente – mancanza del cibo musicale necessario (la chitarrina acustica da cinquantamila lire di “Sometimes”, il fruscio che neanche la peggiore cassettina Sony HF del tempo di “South Over The Seven Hills”). A parte gli interessanti due esperimenti strumentali (soprattutto “Oceanic”), ciò che ci piace di più pensare è Belhorm intento ad incidere questo album tra Monaco, Londra, Nashville e Parigi. Se così fosse per molti più dischi, ci verrebbe da dire, avremmo in giro più musica che profuma di mondo e di terra. Di esperienze vere, insomma.