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Mark Kozelek non si ferma. Magari se la prende comoda. Ma non si ferma, e, grazie a dio, non intende fermarsi. Noi ci dimeniamo sopraffatti, sommersi e intrappolati da una mole di ascolti talmente passeggeri da non riuscire a depositare nulla, né nella nostra memoria, né nell’anima. Lui arriva e, con appena un soffio, spazza via tutto. Mark Kozelek non alza la voce, non paraculeggia in giro, non mostra la faccia, non si fa la benché minima pubblicità. Semplicemente se ne frega. Quello che non smette mai di fare è suonare, soprattutto dal vivo. “Little drummer boy” raccoglie interpretazioni live di pezzi dei Red House Painters, dei Sun Kil Moon (quindi anche cover degli AC/DC e dei Modest Mouse), o semplicemente suoi e basta, eseguite nel periodo tra il 2003 e il 2006: ma è anche un greatest hits sotto mentite spoglie.
Mark Kozelek in “Little drummer boy” è nudo, come le sue canzoni: i mondi che evoca prendono forma grazie a un sospiro, a un pulsare delle vene. L’atto del suonare scompare, perde ogni gratuità per farsi puro impatto fisico. Il pubblico ammutolito, nessuno sul palco oltre a Mark e, neanche sempre, il fedele Phil Carney. Nonostante la distribuzione temporale diseguale (il primo cd dura un’ora e un quarto mentre il secondo soltanto mezz’oretta), “Little drummer boy” è un flusso ipnotico di immagini che si avviluppa intorno all’immensa voce di Kozelek, ancora una volta e per sempre sinonimo di magia. Ci sarebbe da parlare della scaletta. Ma cos’altro si può dire quando si scopre che nello stesso disco compaiono “Katy song” e “Four fingered fisherman”, “Rock’n’roll singer” e “Bubble” (in una versione che definire favolosa pare un insulto), “All mixed up” e “Carry me Ohio”? Per scoprire che con le escluse verrebbe fuori un best of da capogiro.
Mark Kozelek è tanto ignorato quanto prezioso. E’ il più grande di tutti gli autori defilati, ignorati, disdegnati e accantonati. Per fortuna qualche volta si ricorda di esserlo. E ricorda a noi di non dimenticarci della sua esistenza.