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“Noi siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni e la nostra breve vita è circondata dal sonno”. (W. Shakespeare)
Meglio dormire, e cercare di sognare. E chi dice che, proprio mentre si sogna, non si abbia maggior lucidità? Sull’argomento si sono scervellati, molto meglio di me, caterve di scrittori e filosofi, e non è il caso di aggiungermi alla lista: ma i sogni che hanno partorito questo “Technicolor dreams”, il terzo album dei campani …A Toys Orchestra, dovevano essere qualcosa di davvero eccezionale. All’epoca del precedente “Cuckoo bohoo”, scrivevo: “Album splendido, ma che non riesce a superare totalmente il proprio modello. Quando ci riusciranno, gli …A Toys Orchestra saranno il nostro piccolo gioiello”. Bene. Tre anni dopo, il nostro piccolo gioiello è reale, e talmente bello da lasciare a bocca aperta.
Non sembri un’esagerazione: “Technicolor dreams” ha in sé una voglia di giocare, di superare gli schemi, e di scombinare le strutture di canzoni in sé perfette, che non è comune; tutti costruiti sul pianoforte, questi tredici sogni scappano in ogni direzione, come bambini in fuga dalle mani dei genitori che li vogliono riportare a casa dopo una festa. Dopo l’intima enfasi di “Invisible”, è “Cornice dance” a mostrare i primi sintomi di follia: un synth squarcia l’aria come una sirena e conduce a melodie vocali degne di Sgt. Pepper, mentre qualcuno fa promesse che sa di non poter mantenere e prende a pugni la tastiera di un pianoforte e le chitarre si impennano maestose; è “Ease off the bit”, però, il momento più folle: una suite che sorride di chitarre acustiche, fino all’improvviso e insensato imbizzarrirsi del Casio azzoppato da uno tsunami elettrico.
La vera meraviglia, però, è come tutta questa follia appaia meravigliosamente equilibrata: merito della produzione eccellente di Dustin O’Halloran dei Devics, certo, ma anche e soprattutto di una band mai così padrona di sé, in stato di grazia sia per le musiche (che rivelano a ogni ascolto nuovi colori, negli spazi che vanno dalla marcetta in minore alla Kurt Weill di “Mrs. Macabrette” al sussurro di chitarre di “B4 I Walk away”, dai palloncini acidi della title-track alle confessioni intime di pianoforte di “Powder of the words”) che per testi zeppi di immagini bellissime e surreali (l’uomo che si confessa ubriaco di latte materno in “Letter to myself”, o il prete che canta i Clash vestendo intimo rosso in “Amnesy International”). La verità è che, in questi tre quarti d’ora, tutto funziona alla perfezione, perfino il libretto illustrato come una favola, psichedelica e lievemente triste: per una volta, non si esagera nello scrivere che “Technicolor dreams” è uno dei migliori dischi ascoltati da molto tempo a questa parte.