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Non contiene nulla di nuovo dal punto di vista musicale e concettuale, dura poco (33 minuti a prezzo pieno…) e, ad essere pignoli, ci si potrebbe anche chiedere se fosse davvero il caso di pubblicarlo ora, o se invece l’autore avrebbe potuto attendere di confezionare un disco più sostanzioso. Questo di primo acchito, al primo contatto. Ma poi, a poco a poco, ascolto dopo ascolto, cominci a godere di una scrittura (in tutti i sensi) che non conosce pause nell’ispirazione, di impasti sonori inimitabili, morbidi e maestosi, che consolano da molteplici tristezze. “La tristezza non prevale su me/col canto la tengo lontana”: così recita un verso di “Aspettando l’estate”, forse il gioiello di questo disco apparentemente minore. E la musica di Battiato è un forte antidoto contro la tristezza. Non per attitudini banalmente consolatorie, ma per l’esatto contrario. E’ pessimista, di un pessimismo sempre più radicale ed eroico, di quello che è cibo per la mente e per l’anima; di quello che gode delle piccole come delle grandi cose, dei profumi della natura come degli spazi cosmici, che riconosce le miserie e contraddizioni dell’esistenza indicandole a dito ma senza atteggiamenti inquisitori, con la consapevolezza che il raggiungimento di “stati di gioia”, dell’elevazione spirituale sulla contingenza e sull’apparenza, è conquista faticosa, continuamente rinnovata e mai stabile. Ciò che continua a stupire, nella morale filosofica e spirituale del catanese, è il suo essere sempre e comunque laica, al di fuori da qualsiasi confessione. Un bell’esemplare di quel raro animale in via di estinzione che passa sotto il nome di “moralismo laico”.
Apre il disco la title track, brillantemente disarticolata, nella quale la musica ricalca imitativamente il testo: un vuoto che è il caos del paranoico mondo moderno. L’uso del sintetizzatore (suonato da Battiato) è come sempre magistrale. “I giorni della monotonia”, che richiama la tematica dei rapporti amorosi di brani come “Il mito dell’amore” (“Fisiognomica”), precede la già nominata “Aspettando l’estate”, canzone pop perfetta, rigorosa nella ritmica, leggera e quasi eterea nel canto e nei vocalizzi, di tono epico-elegiaco, quello nel quale Battiato ha sempre dato il meglio di sé. “Niente è come sembra” riprende il filo conduttore dell’album, quel rapporto fra apparenza e realtà, o meglio fra apparenza e sostanza, che ormai da anni costituisce uno dei poli principali della riflessione della coppia Battiato-Sgalambro e che qui ne “Il vuoto” trova la sua massima espressione nella penultima traccia, “Io chi sono?”, splendidamente aperta da un chiaro riferimento alla teoria aristotelica del cielo e dell’etere, dell’immutabilità del mondo astrale. “Qui non si impara niente sempre gli stessi errori/Inevitabilmente gli stessi orrori da sempre come sempre”: proprio quando non sembra esserci via d’uscita arriva il colpo d’ala: tutto da gustare per come Battiato riesce davvero ad “intonare” il suo pensiero. La vera forza di testi come questo sta nel loro essere dotati di un duplice livello di lettura: possono essere diversamente fruiti senza per questo perdere in efficacia.
“Tiepido aprile” esibisce grande pulitezza vocale; “Era l’inizio della primavera” è l’adattamento di una lirica di Tchaikovsky. Classico finale è “Stati di gioia”, quello che “L’oceano di silenzio” era per “Fisiognomica”. Forse non del tutto omogenea al resto dell’album è “The game is over”, nel filone del Battiato più elettronico. Collabora tra gli altri la Royal Philharmonic Orchestra diretta dall’ormai fedelissimo pianista Carlo Guaitoli.