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Da sempre considerati una piccola colonia di batteri cresciuta sul dorso del grande capodoglio Franz Ferdinand (che li ha fatti conoscere in Europa portandoseli in tour come spalla), i londinesi Rakes arrivano al secondo album in un momento non particolarmente felice per l’indie rock britannico. La grande sbronza mediatica della cosiddetta “British Invasion” sembra ormai aver esaurito i suoi effetti deformanti e inizia a dilagare un po’ ovunque un certo fastidiosissimo odore mortuario di entusiasmi in disfacimento (Bloc Party su tutti) e un sentore diffuso di stanchezza quando non addirittura di precoce invecchiamento (Kaiser Chiefs in primis).
Eppure, sorprendentemente, questi Rakes, dopo un primo album piuttosto traballante e non certo irresistibile (o forse proprio grazie a questo…), realizzano nella penombra della loro semicelebrità un secondo disco decisamente ispirato e in larga parte convincente, che non deluderà le aspettative di tutti i cultori del recente revival new wave.
Il magistero dei padri putativi Franz Ferdinand appare ancora imprescindibile anche se in parte metabolizzato, così come certi affondi melodici degni dei Maximo Park, spezzati qua e là da pungenti note di costume che ai più smaliziati faranno venire in mente i mai troppo lodati Pulp. L’apertura è affidata a “The World Was A Mess But His Hair Was Perfect”, agile congegno ritmico privo di ritornello, costruito su ingranaggi di basso e chitarra dentati formato Talking Heads, che senza rinunciare alla propria matrice genuinamente wave riesce a parlare con disinvoltura il linguaggio sconnesso dei danceflor indie più snob. In “Little Superstitions” il gruppo dimostra invidiabili doti compositive, in una canzone che non ha fretta di farsi piacere e si distende nella parte centrale, dopo una serie di increspature, in un disegno melodico estremamente orecchiabile. Stesso discorso per “We danced Togheter”, che vive di tempi un po’ più accelerati e si schiude in un gioioso party mentale che impasta luci e ricordi e si corica poi su un assolo di chitarra strategicamente posto verso la fine a riprendere il tema portante del pezzo, tirandone in qualche modo le somme. Irresistibile anche “Trouble” che ruba l’attacco di chitarre agli Interpole e, attraverso un’ardita autocitazione, le prime due strofe a “Strasbourg”, la canzone che apriva il passato disco dei Rakes, per poi rifluire in un ritornello a presa rapida che forse è l’ennesimo furto non dichiarato ai giovani R.E.M. e che ad ogni modo trova in uno stadio affollato e sciamante il suo habitat naturale.
Con “Suspicious Eyes” i Rakes potrebbero aver già bruciato tutte le tappe e scritto il loro capolavoro, giostrando in un esiguo fazzoletto di note una splendida figura melodica, ma il loro grande lavoro in fase di scrittura viene in parte vanificato dalla voce femminile e maschile che intervengono nella seconda parte del pezzo senza integrarsi con le sue dinamiche, anzi sgretolandone la compattezza (l’ignota voce maschile si mette addirittura a rappare in modo oltraggioso!). Le successive “On Mission “ e “Down with Moonlight” sono invece opache incursioni nei territori della disco che non seguono una struttura precisa e si aggrappano a intuizioni ritmiche slegate e per lo più incompiute, come se il taptop un dj fosse esploso e collassato su sé stesso, e la loro fruizione ne risente in modo spaventoso. Riscatta in parte le sorti del discorso la furbastra “When Tom Cruise Cries”(!) che fa le pulci in modo piuttosto pedante a certe inflessioni tipicamente ferdinandiane e finisce col “kapraneggiare” (nel senso di Alex Kapranos) forse un po’ troppo sui suoi giri di chitarra. Più o meno stesso discorso per “Time To Stop Talking”, che prende le mosse da un groove di fondo comunque tremendamente azzeccato, in presenza del quale non bisogna aver paura di entusiasmarsi. A “Leave The City And Come Home” spetta l’onore di chiudere degnamente questo album (pop) in modo pop ( ma siamo piuttosto lontani dall’eleganza e dalla grazia formale di “Work Work Work” che chiudeva la passata fatica discografica dei Nostri).
In definitiva ci troviamo in presenza di un’opera che, in tempi di magra come quelli che sta oggi vivendo la scena indie britannica, da piatto di contorno finisce col diventare pietanza discografica principale a dimostrazione di come, quando le capitali dell’impero vengono messe a ferro e fuoco, sono le esperienze periferiche a salvare una civiltà (e la sua musica). Ma… Ve lo immaginate il rock inglese salvato dai Rakes?