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In Norvegia sono pazzi. Non c’è altra spiegazione. Voglio dire, come è possibile che questa orgia di lunghissime canzoni lanciate su oscure autobahn, gonfie di tastiere anni ’80 e di linee di basso ossessive e oscenamente pulsanti, sia arrivata al numero 1 delle classifiche di vendita? Mi chiedo come potrebbe reagire l’ascoltatrice media di una Laura Pausini qualunque davanti agli 120 Days, a tutti questi riferimenti motorik, a questa batteria elettronica scalcinata, a questa voce leggermente sguaiata e persa nel delirio di strumenti: scapperebbe via, la malcapitata, ecco cosa farebbe.
Eppure, da qualche parte di queste nove canzoni, il pop c’è, eccome: solo, è annegato tra ondate oscure e visioni mentali generate dalla chimica in una notte lunghissima di suoni. Gli oltre cinquanta minuti di “120 Days” non concedono nessuna facile tregua, e i brani faticano a distinguersi gli uni dagli altri; questo disco è un viaggio – fisico e mentale – non una raccolta di momenti diversi: si entra dal tunnel vorticoso di “Come out (come down, fade out, be gone)” e si scompare subito, passando tra perversioni sottili e tossiche, andando a lambire le contaminazioni tra rock ed electro degli scomparsi The Music nel singolo “Sleepwalking” (anche se, probabilmente, la band gradirebbe più essere citata a fianco dei Primal Scream, ma tant’è…) e uscendo da questa notte, eccitante e maniacale, solo con la psichedelia amniotica di “I’ve lost my vision”.
E così, mentre l’Inghilterra smania tra le luci fluorescenti e gli imbarazzi modaioli del new-rave, questi quattro norvegesi ne colgono la vera essenza, trasformando il ballo in esperienza visionaria.