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Dopo nemmeno due anni fatti di devastanti scorribande live (a chi ha avuto la fortuna di apprezzarli dal vivo, si direbbe in questi casi che ancora fischiano le orecchie) e momenti di riflessione in sala prove, il quartetto inglese torna sulla scena con l’ attesissimo seguito di “One time for all time”, la decisiva conferma dopo l’incredibile “Fall of math”, una delle sorprese più piacevoli degli ultimi anni, che è bastata per definirli da più voci i “salvatori del post-rock”. Post-rock che, ad eccezione degli irriducibili Mogwai, inizia a dare i primi segnali di stanca, legati alla stessa natura del genere che, – soprattutto nelle band strumentali come i 65DaysOf Static, è inutile negarlo – non ha dalla sua quella pluralità di soluzioni melodiche che gli permetterebbe la stessa longevità di altri filoni del rock.
I 65DOS però, pur negando come buona parte delle band del filone, la piena approvazione di questa scomodissima etichetta, hanno provato a dare una ventata di novità alla gabbia d’acciaio dello schema arpeggio-crescendo-esplosione distorta-rallentamento che dagli Slint in poi ha fatto la fortuna di decine e decine di band. Senza grandi rivoluzioni. Semplificando, in due sole mosse. Forzando le fasi accelerate con tempi ai limiti del math-rock alla Battles. Amalgamando il tutto con un tappeto di supersonici loop e beat che lambiscono tempi techno-jungle da risposta post-rock ad Aphex Twin. La miscela, una sorta di post-rock fatto di accelerazioni che lasciano senza fiato – un po’ come il loro nome scritto appositamente senza spazi – dalle venature inevitabilmente noise e a tratti electro-industrial, ha però rappresentato un autentico ostacolo per i palati meno abituati a sonorità di un certo impatto.
Ostacolo, non si sa quanto volutamente, in parte abbattuto in questo “The destruction of small ideas” per una sferzata relativamente rock. Sottolineo “relativamente”, non si pensi dunque a un clamoroso tradimento. Per rock – licenza di scrittura – si intenda una propensione più analogica e meno fredda. Nonostante l’inizio col piede sull’acceleratore, l’introduttiva ”When we were younger and better” (titolo inquietante per un’intro), è a dir poco spiazzante. Per come finisca per assumere tutti i connotati della classica cavalcata post-rock, graffiante, epica con quel pianoforte di sfondo (leit motiv del genere per come emerge placidamente nel finale ambientale), aggressiva nelle distorsioni come nei migliori Explosions In The Sky.
E non basta la tempesta dissonante del trittico che segue per cambiare idea. “A failsafe” è un’esaltante via di mezzo tra At The Drive In e Godspeed You! Black Emperor, con una notevole reprise dopo l’intermezzo pianistico. “Don’t go down to sorrow” nasce quieta e ipnotica in un graduale ed elegante crescendo che sfocia nei loro peculiari deliri tra tribalismo postindustriale e pura schizofrenia noise. “Wax futures” è Squarepusher che remixa i Mogwai. Solita incredibile precisione nell’esecuzione con gli impietosi fendenti degli affiatatissimi Paul Wolinski e Joe Shrewsbury (unici reduci della formazione originale) due chitarre che sembrano un tutt’uno.
E soprattutto una batteria nevrastenica a coadiuvare quanto era prerogativa inderogabile di basso, loop e drum-machine. Ed è questa la prima grande novità, ovvero il ruolo più attivo e centrale dell’incontenibile batterista, Robb Jonze, in fase di composizione. Senza quei loop ronzanti e distorti ai limiti dello shoegaze digitale (che riappaiono nell’apertura della mogwaiana “Little victories” per lasciare poi campo libero alle chitarre) i nuovi 65DOS sembrerebbero perdere in originalità, ma guadagnare un tantino dal punto di vista melodico. Difficile resistere al fascino decadente e sinfonico di una “Music is music, as devices are kisses, is everything” tracciata da uno stridente violino che si schianta tra gli stop’n’go innescati dalle perverse intuizioni elettroniche di Wolinski. O ancora all’arido ambient dai connotati fortemente industrial (si pensi alle fasi pianistiche degli ultimi Nine Inch Nails) di “Lyonesse”.
Ciò senza rinunciare al maniacale lavoro di limatura al computer e ai synth che si fanno sentire nei maestosi tappeti sonori dispiegati in “Primer” (che solo una band loro come riesce a non rendere smaccatamente prog, nell’accezione negativa del termine) o nel brano meno da 65DOS della raccolta, “The distant & mechanised glow of Eastern European dance parties”. Il titolo è già un indizio di ciò a cui si va incontro, un incredibile punto di raccordo tra post-rock, drone e le acide genialate sintetiche di Aphex Twin, con tanto di synth da dancefloor e finale techno-house. I puristi storceranno il naso, ma l’effetto è a dir poco sorprendente. Qualcosa del genere si era sentita raramente, nemmeno nei Prodigy o nei remix di Pendulum, esemplari tentativi di rottura dei confini tra due mondi convenzionalmente considerati agli antipodi. Formula che tra l’altro si ripete, con più moderazione, nella conclusiva “The conspiracy of seeds”, in cui compare sullo sfondo dell’imponente architettura strumentale sorretta dalle due chitarre, contorte e imprendibili, una voce campionata che potrebbe lasciar intravedere sviluppi ancora più sorprendenti.
A conti fatti, questo lavoro del quartetto di Sheffield, va visto come un’opera di transizione. Ricco di spunti e presupposti che probabilmente troveranno pieno compimento nel prossimo album.
Dove approderanno ci è difficile immaginare, nel frattempo è meglio tenersi forte per riuscire a reggere l’impatto.