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Un manichino già usato troppe volte, coperto da vestiti nuovi: ecco, dopo infiniti ascolti, che cos’è “Volta”.
Quando si parla di Björk, ammetto di essere di parte: ho troppo amore per le infinite curiosità degli anni ’90, per quel saltellio divertito tra mille suoni diversi dove, grazie a lei, le gabbie dei generi sembravano dissolversi; poi arrivò “Vespertine”, e lì fu adorazione vera, quando scoprimmo tutti che quella bimba dispettosa sapeva anche raccogliersi, sussurrare, sfiorare. Ma è da quel punto in poi che qualcosa si è rotto: Björk ha nutrito la voglia di intellettualizzare quella sua musica così gioiosa e, se in “Medùlla” il gioco reggeva ancora (e in “Drawing restraint 9” si potevano cercare mille alibi, dal voler rafforzare le fantasie di Matthew Barney al fatto che fosse una colonna sonora di un film quasi privo di trama), in “Volta” l’incanto non funziona più.
L’istinto per la canzone c’è ancora, perché quasi tutti i brani restano in testa nonostante quelle costruzioni così complesse a forma di istinti tribali o di curiosità world, di aggressione elettronica o di pop basato sulle armonie d’ottoni; eppure, di quella vitalità che è sempre stata l’anima della musica di Björk, qui restano solo piccole, insufficienti tracce: solo la marcia agitata di “Earth intruders” ha quel guizzo vitale che conosciamo bene, ma non è certo una delle sue canzoni migliori.
Per la prima volta, i nomi dei collaboratori (Timbaland, Toumani Diabate alla kora in “Hope”, il meraviglioso Min Xiao-Fen a intrecciare le corde di seta di “I see who you are”) risuonano più del suo, e anche quando entra in scena Antony – e le due voci si fondono perfettamente, come se la terra baciasse la luna – ciò che resta non è l’incanto, ma canzoni che si trascinano come splendidi Moloch.
La fedeltà all’etica di Herbert del campionare se stessi (nella violenta, brutale, sgarbata “Declare independence” compaiono frammenti di “Drawing restraint 9”), qui, è andata oltre, mascherandosi da auto-citazione; se “Volta” voleva essere un ponte tra “Homogenic” e “Medùlla”, più spesso assomiglia a qualcosa che Björk ci ha già fatto ascoltare altre volte: “Innocence” è un calco perfetto, appena più tribale, della vecchia “Alarm call”; la bellezza di “Pneumonia”, miracolo di fragilità per voce e ottoni, viene oscurata dalla somiglianza con quella “Harm of will” apparsa su “Vespertine”; “Vertebræ by vertebræ” è gonfia di suoni come se venisse direttamente da “Selmasongs”…
Non è semplice affrontare “Volta”; esplicitamente politico, aperto più che mai ai suoni del mondo, il disco ha bisogno di molti ascolti per essere visto in ogni suo angolo: il problema è che, questa volta, non si è invogliati ad avvicinarsi.
Il mio è un lamento da amante deluso, lo so bene; eppure – e non avrei mai pensato di poterlo dire – questa volta Björk ha fatto un disco (lo scrivo? non lo scrivo?) brutto. Brutto e non all’altezza.