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Terra strana, il Veneto. Capace di custodire gruppi che suonano per anni e anni senza esordire mai (a quanti mancano i Northpole come a me?), o di concepire la new wave italiana perfino meglio dei clamori fiorentini di inizio anni ’80 (i Frigidaire Tango, che finalmente qualcuno ha ricordato).
Che c’entra tutto questo con le Olocombustioni Paniche? C’entra, eccome. Perché non solo i ragazzi sono veneti, ma hanno aspettato ben diciassette anni (tra demo, silenzi e assestamenti vari) prima di arrivare al loro debutto; e, soprattutto, perché il loro suono traccia una linea diretta con i Frigidaire Tango e con le oscurità che arrivavano in quegli anni dalla Gran Bretagna: i Joy Division, certo, ma anche e prima di tutto i Sound.
Insomma, in tutto questo revival post-punk, le Olocombustioni Paniche potrebbero perfettamente dire la loro, e lo farebbero con cognizione di causa; c’è tutto quello che serve, dal basso cavernoso (“Free falling objects”) al piglio punk non dimentico della melodia (“Wasted”), concitazioni ritmiche e verbali (una “Diggin’ holes” che nobiliterebbe e non di poco l’ultimo, incerto album dei Bloc Party) e rumoristiche ansie incrociate tra loro (“Escape”).
Oscurità terribile (“Scarps”) e singhiozzante catarsi “(“Illusion of time”): le coordinate di allora sono quelle attuali, per la band padovana che, per inciso, suona molto meglio di Interpol, Editors e compagnia, ma paga la mancanza di un brano che spicchi sugli altri e di una voce che sia davvero incisiva; l’impressione è che questa produzione abbia appiattito un po’ queste canzoni, sicuramente capaci di grande potenza emotiva sul palco.
In attesa di vederli in scena, allora, mettere nel letture questo “We have blood inside” darà l’impressione di essere lì, sospesi da qualche parte tra il 1979 e il 1984. Sensazione tutt’altro che fastidiosa.