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Dopo un decennio passato a nascondersi tra le parentesi di una fumosa ragione sociale, Bill Callahan decide di uscire a viso aperto con un disco a suo nome. “Woke On A Whaleheart” arriva dopo un paio di anni da quel bellissimo “A River Ain’t Too Much To Love” che aveva segnato il suo ritorno agli antichi fasti. L’ispirazione dei giorni migliori che trasudava da quelle canzoni la ritroviamo qui, in una forma ancora più matura. Ormai Callahan usa la musica come un mero pretesto, un appoggio per la narrazione, non sono le parole che si adattano alla musica, ma il contrario. Le seguono, si vanno a braccetto e assecondano i balzi, i salti, i giri e le incertezze, poco interessate a costruire una melodia solida quanto un senso teatrale che metta in risalto quello che effettivamente Callahan scrive: racconti.
Basterebbe l’incipit di “From The River To The Ocean”: “When you’re blind you touch things for their shape, have faith in wordless knowledge” e si capisce che il termine cantautore ormai è riduttivo, così come cantastorie appare anacronistico. Callahan è un ibrido, una via di mezzo inedita tra un narratore che strimpella, e un musicista attento alle parole. Ed è per questo che “Woke On A Whaleheart” è così convincente, distaccandosi così dal grigiore che questa specie di folk-rock morfinico suggerisce, diventando un disco universale da ascoltare, scoprire ed amare giorno dopo giorno.
E’ l’ennesimo disco che conferma come una maturazione consapevole dia il la alla migliore delle arti. Anche se è difficile dire in cosa sia maturato un autore già di per sé capace di maneggiare alla perfezione le sue personali briglie. Lo dice lui stesso in “Honeymoon Child”: “Mr.Bones from town said he saw you the other day. Said you’d changed but he wouldn’t say how.”