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Chris Cornell ne ha già passate parecchie: frontman di una delle più grandi band dell’epoca grunge, conseguente traversata infernale in un mare di eccessi, un più che buono disco solista e poi il supergruppo Audioslave, magari non la salvezza del rock ma un esperimento che comunque poteva andare molto (ma molto) peggio. Ecco la parola giusta per definire “Carry on”: peggio. È il punto più basso della sua carriera, da pressoché un decennio lontana dalle glorie ma anche dall’infamia.
Anche “Carry on” si aggira a mezz’aria, in quanto privo di inequivocabili passi falsi e completamente sprovvisto di guizzi degni di nota. Ciò che emerge è la vena zarra del nostro, mai così mainstream (scelta esemplare quella di coverizzare la “Billie Jean” che fu di, ebbene sì, Michael Jackson), pulito e levigato in tutto, dalla voce agli arrangiamenti. Nessun rischio preso, poca originalità, pochi risultati e comunque tutti incasellati per bene. Un pizzico di “Stairway to heaven” in “Arms around your love”, una spruzzata di McCartney in “Scar on the sky”, un po’ di sporcizia alla Richards in qualche riff, il tutto accuratamente all’acqua di rose. Probabilmente successo come mai prima d’ora, anche grazie allo zarrissimo (qui non per forza in senso negativo) Casino Royale che ha spinto alla grande un’appropriatissima (per un film di James Bond) “You know my name”, appositamente posta in chiusura all’album.
La gran parte di coloro i quali si avvicineranno a “Carry on” sono estimatori di almeno una delle incarnazioni musicali di Cornell. Non potranno che rimanere delusi. Né affranti né speranzosi, solo cautamente scettici e vagamente disillusi.