Share This Article
“Se vuoi farti le seghe, usa le mani. Non i dischi.” Una massima letta in rete. Geniale. E verissima. Quante volte noi, vecchi ragazzi punk presi male con l’underground, l’indie-rock di un certo tipo e le chitarre elettriche stronze l’abbiamo detto nei confronti dei pretenziosi macchinoni di gente che voleva farti sapere a tutti i costi che sapeva suonare? Ho perso il conto. Quello che stupisce, è che una frase del genere può essere usata anche per gruppi che non sanno suonare. Prendiamo i Jennifer Gentle. Quanto avevo amato “Valende” e i suoi predecessori, quanto questo “The Midnight Room” mi lascia perplesso.
Chiariamoci, i Jennifer Gentle sono abituati a spiazzare e spaziare. Ne sono dimostrazioni efficaci i millemila progetti paralleli con questo o quell’altro personaggio e via delirando. Ma. Questa volta la sbandata sperimentale è di una gratuità pazzesca. “The Midnight Room” gira attorno al niente e te lo fa anche pesare. Il disco è un macigno, mancano quelle melodie barrettiane punto forte di “Valende” e quei viaggi cosmici che avevano colpito la critica nei primi due dischi. Questa volta sembra tutto campato per aria. Un disco totalmente a-melodico, decisamente compiaciuto (e forse qui va detto che lasciare solo uno come Marco Fasolo non è esattamente una buona idea, quando si tratta di fare un disco compiuto) e che si perde nell’ansia di voler sorprendere a tutti i costi. Ma si sa, a fare pop d’avanguardia per partito preso, si rischia di pisciare fuori dal vaso. E qui, tra marcette senza senso (“Telephone Ringing”, “It’s In Her Eyes”, “Take My Hand”) e afflati ambiente-psych che guardano a Wyatt ma all’intenzione si fermano (“Come Closer”, “Twin Ghosts”), c’è da chiedersi quando l’abbiano mai centrato, il vaso.