Share This Article
Sarà pure l’unica data italiana ma nemmeno i più ottimisti estimatori della band di Montreal avrebbero immaginato a due anni di distanza da quella che resta la loro prima e ultima visita in Italia – nel ben più intimo Rainbow di Milano – un tale bagno di folla. A tre anni dall’incredibile esordio di “Funeral” possono già permettersi una serata tutta per loro al Ferrara Sotto Le Stelle, un nutrito seguito da cult-band affermata come testimoniano spille, magliette e toppe che si sprecano tra i fedelissimi assiepati da ore sullo scomodo selciato della splendida piazza del castello. Difficile capire il segreto di una band tutt’altro che appariscente e autenticamente indie (nell’accezione originaria di indipendente), tutt’altro che sperimentale per vocazione e, anzi, proiettata nel passato senza però scopiazzare furbamente come altri specialisti del revival per ascoltatori dalla “memoria corta”. Non resta che la prova del fuoco del live, dunque, per capire quanto di passeggero ci sia nel fenomeno-Arcade Fire dopo la piacevole conferma del notevole seguito “Neon Bible”.
Il palco è di quelli che contano. Neon a profusione, persino sull’asta dei microfoni, cinque schermi circolari in cui al logo del nuovo album si alterneranno immagini dei dieci musicisti che affollano la scena e di un pubblico che dalle prime note di “Keep The Car Running” è già in visibilio. Lo spettacolo assume subito le sembianze di un rito collettivo, solenne e corale. Ritmi frenetici, i sette Arcade si dimenano posseduti. Le voci dei coniugi Butler si levano al cielo come invocazioni sacre nei magniloquenti salmi rock di “Black Wave/Bad Vibrations” e “Intervention” con quell’organo a canne più o meno scenografico scosso dai secchi rintocchi di Jeremy Gara, batterista e all’occorrenza pianista e chitarista. “No Cars Go”, catartico tripudio di fiati, archi e tastiere, è già un classico. Sorprende la vena con cui i nuovi brani vengono riadattati a esigenze da concerto. “Black Mirror” parte con un’introduzione ai limiti dello shoegaze e procede nebbiosa e avvolgente con il tuonante basso del fratello/cognato William Butler che copre lo stridente tappeto di chitarre. Saranno canadesi del Quebec ma ascoltando “The Well And The Lighthouse” e soprattutto “Antichrist Television Blues” è impossibile non pensare a Bruce Springsteen, non solo per la visceralità da animali da palcoscenico che a tratti lambisce stati di delirio estatico, quanto per le linee melodiche disegnate dalla voce di Wim.
Gli strumenti sul palco si sprecano in un continuo avvicendarsi dei sette componenti (completano il quadro due spalle di sfondo che suonano ogni genere di fiato e non solo e una violinista altrettanto posseduta) tra organetto, bouzouki, chitarre, piano, celesta e megafono. Il rosso Richard Parry, duttile quanto infervorato, suona praticamente ogni cosa. Anche la sua testa, se necessario, picchiando duro su un casco nel nevrotico incanto di “Neighborhood #2 (Laika)” che arriva di seguito alla più rilassata “Haiti”. Il pubblico accompagna ogni nota in un continuo accompagnamento fatto di cori e battimani. Si respira un’atmosfera serena e rassicurante, anche nelle fasi più sommesse e malinconiche, la romantica “Ocean Of Noise” e una “Neon Bible” sussurratissima. Artista a 360 gradi Régine Chassagne non ha solo una voce poco comune, ma sfida il rosso arrivando a suonare la batteria nella commovente “Neighborhood #1 (Tunnels)” urlata con voce e cuore da Butler. Incantevole, ammaliante, oltremodo magnetico, lo show scorre velocissimo, anche troppo nonostante la durata sia nella norma. Il finale è magistrale con un’incontenibile “Neighborhood #3 (Power Out)”, claustrofobica e alienante più che in disco, che si lega nel finale alla liberatoria “Rebellion (Lies)”, con un coro che continua a rimbalzare nella folla anche quando i dieci si godono il meritatissimo break prima del bis.
E il bis riparte, per così dire, con un break, che poi sarebbe uno dei brani migliori dell’ultimo album. Luci basse e silenzio funereo – senza allusioni anche perché il disco è un altro – per la straziante “My Body Is A Cage”. Un’inquietante e dissonante tessuto di organo e archi strozza il fiato in gola fino a farlo venire meno, il fiato, nella folgorante esplosione che turba il placido riecheggiare dei timpani. Non può finire così. E infatti arriva il brano che ha reso David Bowie illustre estimatore degli Arcade Fire – con tanto di memorabile duetto live – “Wake Up” a scacciare ogni spettro. Il coro che accompagna l’epica melodia di uno dei brani più belli degli ultimi anni fa tremare l’imponente castello estense illuminato a giorno. Finisce tutto all’improvviso e l’oh oh oh oh pare riecheggiare ancora nella piazza che fatica a svuotarsi. E’ solo un’illusione. Sarà il ritmo sfiancante dell’esibizione ma prevale un rilassante silenzio, ottimo per accompagnare le buone sensazioni fatte affiorare nel cuore dalle nenie elettriche e dai salmi al neon dell’orchestrina canadese. Concerto dell’anno? Presto per dirlo, ma questa prima apparizione italiana sotto le stelle – non è un gioco di parole – degli Arcade Fire, è quantomeno roba da targa commemorativa. Proprio sotto l’insegna “Piazza Castello”. Non sarà mica chiedere troppo?
SETLIST
Keep The Car Running
No Cars Go
Haiti
Neighborhood #2 (Laika)
Black Mirror
Black Wave/Bad Vibrations
Neon Bible
Intervention
(Antichrist Television Blues)
Ocean Of Noise
Neighborhood #1 (Tunnels)
The Well And The Lighthouse
Neighborhood #3 Power out
Rebellion (Lies)
________________________
My Body Is A Cage
Wake Up