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In un mondo perfetto, si sa, sarebbero stati gli Arctic Monkeys a fare da supporto ai Coral. Ma non viviamo, appunto, in un mondo ideale.
A Ferrara comunque le due band parevano essersi messe – volenti o nolenti – nella parte, perché tanto è stata timida la band capitanata da James Skelly tanto è apparsa spavalda quella di Alex Turner. I Coral iniziano con “Goodbye” dal loro insuperabile primo album e in punta di piedi rovesciano le loro vellutate melodie Sixties sui cinni accorsi solo per le Scimmie. Il volume è basso, il pubblico non è che non gradisce, è che non capisce. La generazione-distrazione (io la definirei così perché non riescono a concentrarsi neanche un secondo per godersi un concerto – non la lezione di matematica! – che c’è sempre la chiacchieratina da fare, l’sms-ino da mandare, la fotina da scattare, la canna da passare…) non si capacita come dei loro coetanei possano suonare quella musica da sessantenni, così, senza urlare né dimenarsi. “Simon Diamond” continua quel climax da tempi andati, con parti psichedeliche perfette che però si perdono nel vociare generale.
Sembra un po’ l’effetto che fecero i Low in apertura dei Radiohead. Dal vivo i Coral non si scompongono, ma la cosa strana è che sembrano allo stesso tempo in apprensione e, al contrario, perfettamente padroni in ogni parte del sound che fuoriesce: le melodie assumono un piglio più easy, si direbbe quasi più Thrills se ciò non potesse essere equivocato come una critica. Quello che viene presentato come il singolo del nuovo album (“Roots And Echoes”, in uscita il 6 agosto) stupisce per la perfetta aderenza melodica, mentre la successiva “She Sings The Mourning” anima gli animi, con il chitarrista solista Bill Ryder-Jones che usa un archetto da violino. C’è tempo anche per “In The Morning” (che è l’unica che riconoscono gli zoticoni da radio105) e per la nuova “In The Rain”, mentre nelle songs di chiusura spunta fuori anche una “Arabian Sand” dal finale indiavolato. Insomma, i Coral lasciano il palco con l’espressione sul viso dipinta come a dire: “Sappiamo che siamo i migliori ma vi lasciamo fare le pippe con gli Arctic Monkeys”.
E il gruppo di Sheffield si dà ad uno show disinvolto e coinvolgente, proponendo quasi tutto dai due album (dell’ultimo rimangono fuori solo la lenta “Only Ones Who Knows”, “The Bad Thing” e “505”). L’annotazione fondamentale è questa: come resa live le canzoni di “Whatever People…” surclassano quelle di “Favourite Worst Nightmare”. Un po’ è che i cinni (quelli del pubblico) evidentemente conoscono di più il primo e contribuiscono a rendere l’atmosfera più energica, ma indubbiamente pezzi come “The View From The Afternoon”, “Dancing Shoes” e “When Sun Goes Down” sembrano composti apposta per essere suonati dal vivo.
Il repertorio non è immenso e gli Arctic Monkeys chiudono dopo un’ora e un quarto, senza concedere bis. Lo show è stato al fulmicotone, non si sono risparmiati eccetera eccetera, però – diciamolo chiaro e tondo – questi quattro qua hanno già indossato i vestiti da star, e se li rimirano allo specchio. Quand’è che tornano i Coral in Italia?
(Paolo Bardelli)