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Arriva finalmente, a due anni di distanza dal precedente e apprezzatissimo “Bang Bang Rock & Roll” (da avere possibilmente nella riedizione ampliata in due cd con ben sei inediti in più e quattro brani live), il secondo capitolo discografico degli inglesi Art Brut. Il disco è stato prodotto da Dan Swift (il predecessore aveva visto dietro la cabina di regia John Fortis) ma il suono non sembra mostrare particolari innovazioni o clamorosi stravolgimenti rispetto alla formula consolidata del primo album. Forse la principale novità risiede nel fatto che laddove il precedente “Bang Bang Rock & Roll” era costituito fondamentalmente da una raccolta di singoli irresistibili ma piuttosto slegati ed ondivaghi, in questo “It’s a bit complicated” (come del resto tende a precisare il titolo stesso) si fa più preponderante la volontà da parte del gruppo di confezionare un prodotto più organico e strutturato, caratterizzato da un suono più compatto ed omogeneo. Forse questo scelta è stata determinata dal fatto che rispetto al primo disco (maturato probabilmente in momenti diversi e attraverso una prolungata attività dal vivo) “It’s a bit complicated” è stato interamente concepito e puntigliosamente costruito in studio.
L’elemento che più caratterizza il suono dell’album (come già accaduto con i Kaiser Chiefs) è senza dubbio la chitarra (d’altra parte gli Art Brut hanno in organico ben due chitarristi, rispettivamente Ian Catskilkin e Jasper Future): il primo scomposto vagito di ogni canzone è infatti quasi sempre costituito da un irresistibile riffone di chitarra, piano e regolare, sul quale poi gli altri strumenti ricamano e aggregano le proprie invenzioni, via via più rifinite. Per il resto la strategia adottata dagli Art Brut rimane fedele a quanto già elaborato nell’album d’esordio: Eddie Argos più che cantare declama (guardando tanto ai nevrotici comizi di Mark E. Smith dei Fall quanto a certe instabili arringhe di scuola hardcore) i suoi monologhi tragicomici e spesso autobiografici con quella sua parlantina leggermente strampalata e tremendamente logorroica. I testi sono molto divertenti, resi pungenti da un’ironia sottile e scaltra in bilico tra Morrisey e Jarvis Cocker, e spesso si risolvono in fulminanti schegge di vita quotidiana che, tra sbronze, amplessi interrotti per alzare il volume (l’iniziale “Pump up the volume”) dello stereo e treni persi forse per sempre, focalizzano la propria indagine soprattutto intorno alla difficoltà di costruire solide relazioni affettive, in particolare all’interno del rapporto di coppia. Il tutto sfocia quasi sempre poi in ritornelli sbilenchi e volutamente stortignaccoli, imperniati sulla ripetizione quasi ossessiva di una stessa frase, per lo più priva di un significato vero e proprio (memorabile in questo senso il ritornello in tedesco “Punk rock ist nicht tot” di ST Pauli).
La cornice musicale è la consueta: si avverte l’influenza di certi gruppi americani anni ottanta come Pixies e Dinosaur Jr, soprattutto nelle asperità di certi passaggi di chitarra più sporchi e angolosi, ma appare fondamentale anche la lezione di alcuni mostri sacri dell’olimpo punk più ortodosso: Television e Voidoids su tutti, ma anche Ramones, Damned e Buzzcocks. Rispetto all’esordio risulta poi più evidente il legame con la tradizione del pop britannico, che porta il gruppo a curare di più la costruzione melodica delle canzoni (più “pettinate” e meno arruffate rispetto al passato) , soprattutto attraverso un sapiente impiego dei cori (come accade in “Direct Hit”, “Post Shoting Out”,“I will Survive” o in “Late Sunday Evening”, dalla trama limpidamente beatlesiana, arricchita inoltre da un’insolita ed efficacissima sezione di fiati). Qualcuno potrebbe anche storcere il naso: mentre nel primo disco infatti una certa esplosività deliziosamente dadaista e teatrale delle canzoni era funzionale ad un’opera che nel suo complesso voleva celebrare la scoperta del rock, innanzitutto come spensierato approccio alla vita (ricordate “My Little Brother…” o “Formed a band”?), tra le pieghe di questo “It’s a bit complicated” sembra invece di intravedere un gruppo che cerca in qualche modo di fare i conti con la propria maturità ed inizia ad esplorare in modo meno superficiale le possibilità espressive a sua disposizione, affinando i propri strumenti e la propria scrittura.
Insomma un buon disco, che qualcuno potrebbe definire “di transizione”, il cui principale limite risiede forse nel fatto che, a parte la splendida “Nag Nag Nag Nag”, forse la migliore canzone degli Art Brut di sempre, difetta un po’ sul fronte di singole canzoni davvero memorabili, probabilmente sacrificate un po’ all’interno di un più coeso affresco d’insieme.