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Qualcuno sembra stupirsi del tipo di platea accorsa in massa al Saschall per la prima delle due tappe italiane degli Interpol. Del tripudio di camicie, gilet, cravatte, pantaloni attillati e frangette senza distinzioni di sesso, età, nazionalità e inclinazioni. Dimenticandosi che gli anni 80 oggi sembrano più in voga che negli anni 80 non solo musicalmente. E a ciò non possono sfuggire neanche gli Interpol che, nonostante il look giusto che fa la gioia di svariati cloni maschili e femminili, di anni 80 avranno tantissimo, ma di indie sostanzialmente non hanno mai avuto nulla. Se non la fortuna di essere tributati con “Evil” e “Slow Hands” in ogni dj-set indie/new wave che si rispetti. Insomma le spiegazioni ci sono. Così come non mancano per comprendere come nel 2007 i Blonde Redhead, loro che sono stati indie quando indie non significava saper abbinare i colori di cintura e cravatta, possano fare da spalla ai loro giovani concittadini.
Sono passati cinque anni dall’incredibile “Turn On The Bright Lights” e i buoni esiti dei due album successivi hanno smentito quanti credevano, o speravano, che i quattro fossero un altro fenomeno-15 minutes of fame. Parallelamente alla confusione creativa del trio guidato dai gemelli Pace che dopo l’acme raggiunto con “Melody Of Certain Damaged Lemons” si sono un po’ persi per strada nella coraggiosa virata per un pop più o meno sperimentale, più o meno melodico, più o meno accessibile, più o meno d’autore, più o meno elettronico. Non a caso la loro performance è all’insegna del più o meno. Kazu sembra, per usare un eufemismo, più o meno affaticata, l’uso eccessivo di basi registrate è più o meno adeguato e i brani più o meno validi di “23” rendono poco. A far risollevare le sorti del più sul meno arriva per fortuna un ripescaggio doc dall’album sopra citato, una “Melody Of Certain Three” come solo loro che salva un’esibizione più o meno deludente.
Purtroppo la concentrazione di poseur pare direttamente proporzionale alla concentrazione di maleducati così durante l’allestimento del palco, tra spinte e incursioni strategiche, si crea una calca, e una temperatura, poco adeguata alle cravatte. Né rende l’aria più respirabile l’isterismo che travolge con urla e applausi ritmati l’oscura “Pioneer To The Falls” che si manifesta davanti allo sfondo da superquark della copertina del nuovo album. Ritmiche secche, la voce di Paul Banks sembra già calda, il suono sufficientemente avvolgente. Folgorante lo stacco con la tagliente “Obstacle 1”, uno dei brani più belli scritti sinora dalla band, che conferma le buone impressioni iniziali. Non l’unico gioiello, com’era prevedibile, dall’album d’esordio perché più in là arriverà la frenesia di “Say Hello To The Angels” a mettere la voce un po’ in difficoltà nei vertiginosi cambi di tempo. Perché il tappeto ritmico è ineccepibile nei piani quanto nei forti, affiatato, preciso, senza sbavature. Lo show procede liscio, con il giusto equilibrio. Dalle fasi teatrali e cupe dalle tinte – mi si conceda la licenza – autenticamente dark di “Our Love To Admire” su cui svettano “The Scale” e “No I In Threesome”, non a caso anche i due brani migliori dell’album, e gli slanci di relativa leggerezza e ottimismo delle buffonate – preso alla lettera – di “Antics”, da “C’mere” passando per “Public Pervert”. Peccato non ci sia abbastanza spazio per sculettare nel momento da club eighties, “Narc”, con tanto di sfavillanti luci rosa/fucsia, e che il pogo misto a inevitabile karaoke offuschi la buona performance dei quattro durante “Slow Hands” e “Evil”. Le più acclamate insieme al singolone “The Heinrich Maneuver”, uno dei momenti-cazzeggio che però mette in luce i progressi nella resa-live degli Interpol. Poche imprecisioni, la voce non scende spesso di tono. Piuttosto le chitarre dei due inglesi – di nascita – nei tratti più delicati faticano non poco nel reggere il passo con gli impeccabili Fogarino e Charles D che sembrano andare avanti in playback. Un po’ come, per certi tratti, gli stessi Interpol. Poco propensi, com’era logico immaginare, all’improvvisazione e alla variazione del tema (anche perché l’equilibrio tra i volumi finisce per dare poco risalto alle tastiere della seconda voce) salvo un paio di stop’n’go che molti infervorati scambiano per una vera chiusura di canzone reagendo con le classiche ovazioni. La chiusura arriva con la gemma di “Antics”, una struggente “Not Even Jail” che sembra tagliare l’aria.
La claustrofobia e la disperazione, insomma, quasi a ricordarci di quanto fossero, o ingiustamente siano tuttora, considerati uno dei tanti cloni dei Joy Division, prima di spegnere le luci.
Il bis, però, finirà per valere quasi quanto mezzo concerto.
Le luci infatti si riaccendono, al di là del gioco di parole, per un trittico dedicato al primo album. L’omaggio alle atmosfere della città che li ha marchiati a fuoco, dall’eterea “NYC” che sembra levarsi al cielo passando per l’intensità più cruda e terrena di “Stella Was A Diver”.
Fino alla conclusione ideale con la spigolosa e inquieta “PDA”, colonna sonora ideale e specchio della loro New York. Adesso le luci possono spegnersi definitivamente, senza traumi. Più o meno…
1. pioneer to the falls
2. obstacle 1
3. narc
4. c’mere
5. the scale
6. public pervert
7. say hello to the angels
8. mammooth
9. no i in threesome
10. slow hands
11. rest my chemistry
12. the lighthouse
13. the heinrich maneuver
14. evil
15. not even jail
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16. nyc
17. stella
18. pda
(Piero Merola)
16 luglio 2007