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Contratto con una multinazionale. Copertina catchy di dubbio gusto, se non ci si arrampica nel cercare allegorici riferimenti alla natura istintiva e al contempo gelida della band. Quanto basta per concludere frettolosamente che il tempo sia maturo per la virata definitivamente mainstream degli Interpol. Niente di tutto questo. Chi stava per chiudere la finestra del browser si fermi. E’ vero che “Heinrich Maneuver”, primo singolo con video altrettanto catchy, segue in tutto e per tutto la falsariga di “Evil”, come ritmo e controtempi, ma avercene di pop di questo livello. Anche perché non risulterà una tendenza inflazionata nel resto del disco, ricorrendo solo parzialmente nelle strizzatine d’occhio brit di “Rest My Chemistry” e in “Who Do You Think?”, sincopata in una sorta di tempo tra il variabile e il camaleontico come da loro caratteristica e senza le decisive incursioni orchestrali punto di forza del disco.
Se in alcuni dei brani dell’ottimo predecessore “Antics” le orchestrazioni si insinuavano con moderazione per esaltare le fasi in crescendo e far scivolare via le fasi calanti, tradendo in parte la scarna formula basso-chitarre-battera dell’insuperabile esordio “Turn On The Bright Lights”, ora sono centrali e determinanti. Quanto i synth, di evidente eredità anni 80.
Il perfetto trittico iniziale allontana ogni timore.
“Pioneer To The Falls” è la classica apertura da Interpol con la voce di Paul Banks che sputa spleen di Curtis-iana memoria, sospinta però da un minacciosa tastiera dai tratti fortemente gothic.
“No I In Threesome” ha quell’incedere tra Echo & The Bunnymen e Chameleons che solo gli Interpol hanno saputo riesumare con personalità. Notevoli i minimali quanto eleganti gli intrecci, su tutti quello d’apertura, tra le tastiere e il poderoso basso di Carlos Dengler.
“Scale” è una di quelle ballad noir ed epiche alla “Not Even Jail” che senza quel tappeto ritmico così secco a tracciare i romantici grovigli chitarristici di Kessler e Banks, richiamerebbe alla mente alcuni momenti del Bowie della trilogia berlinese.
E’ un disco molto più vicino al cupo esordio del quartetto newyorkese. Le atmosfere, al di là degli arrangiamenti certamente più complessi e pomposi, sono ugualmente morbose e claustrofobiche, le chitarre taglienti quanto basta.
Poco importa che “Pace Is The Trick” suoni tra l’autoreferenziale e il già sentito perché arriva una “All Fired Up” davvero insolita per come gli Interpol si allontanano almeno nelle ritmiche dai territori dark-wave con quell’ossessivo riff di chitarra e un’andatura a tra Pixies e grunge vero e proprio. Ma è la notte più nera a riavvolgere il disco in un finale adeguato al livello del folgorante inizio d’album. “Wrecking Ball” con quel riff tra Joy Division e Bauhaus sembra riecheggiare da chissà dove, in una voce ovattata rassegnata e straziata sommersa gradualmente da echi e effetti che emergono fino a creare un ponte con il brano di chiusura. Una chitarra abietta tra primo Nick Cave e Dead Can Dance disegna uno stridente supporto su cui si adagia la flebile voce di Banks fino ai secchi rintocchi della batteria di Fogarino che farebbero prefigurare un altro spunto epico e orchestrale. E invece “Lighthouse” muore così, senza speranze e lampi di luce.
Teatrale, decadente, dolente. “Our Love To Admire” è questo e nient’altro, per fortuna. Troppo presto per realizzarne il valore in un’ottica-Interpol, ma essere passati dalla superficiale definizione di surrogato americano dei Joy Division del duemila al dato di fatto per cui siano una delle poche band recenti ad aver realizzato tre dischi diversi, di buon livello, con una propria fisionomia che ormai pone in secondo piano le derivazioni al cospetto dell’ottima attitudine melodica, è quantomeno un successo. Il rock sarà pure morto, ma New York è ancora viva. Anche grazie a loro.